CATANZARO. Dai 35mila del Militare ricavati tra gli anni ’60 e ’70, a colpi di lavori su lavori, si passa a metà degli anni ’90 ad una capienza massima di 15mila. Poi, il limite cala a 13mila, infine a 11mila 500. Fino ad una inaccettabile riduzione di 7mila 500 dell’era Cosentino che non ci sta e chiede un impianto capiente per progetti ambiziosi. Forse, non conviene più investire su questa struttura
Oggi come ieri la questione “nuovo stadio” è tra le mani di una giunta comunale guidata da Sergio Abramo, al terzo mandato da sindaco. Dalla sua prima volta (13 anni fa, giorno più giorno meno) a oggi un po’ tutti i governi locali (anche quelli non guidati da Abramo) li hanno passati a trattare il Ceravolo come una forma di das da plasmare assecondando le necessità del momento. Continui maquillage architettonici, periodici restyling, ritocchi strutturali per stare al passo con le sempre più rigide (e in continua evoluzione) norme in materia di sicurezza negli impianti sportivi.
EFFETTO ITALIA 90 Non è certo una botta di lungimiranza che porta la prima giunta Abramo a esporsi sulla spinosa vicenda. È quello che potremmo definire “effetto Italia 90”, la spinta data al rinnovamento degli stadi dall’organizzazione dei mondiali, tra l’altro già stimolata dal cieco bisogno statale di istituire un sistema di controllo (e repressione) sulle tifoserie organizzate. Un’onda che tocca anche il vecchio Militare, fiero dei suoi 35.000 circa ricavati tra gli anni ‘60 e ‘70 a colpi di lavori su lavori, dalla “torretta” in curva est (comunemente detta “stricatura” per la sua straordinaria somiglianza a un lavatoio) ai gradini raddoppiati in curva ovest su suggerimento (vuole la leggenda) di Gianni Di Marzio, tecnico giallorosso nei dorati tempi della serie A. A metà del ’90, nel periodo nero della storia giallorossa moderna, gli spettatori non possono essere più di 15.000, poi calano a 13.000, infine 11.500. Taglio dopo taglio il Militare arriva alla fine del secolo. E con Abramo al potere (e Aldo Costa assessore allo Sport) l’amministrazione comunale avvia l’iter per acquisire l’area dello stadio (compreso il mitico campo “dietro i distinti”) dal Demanio.
AGIBILITA’ A COMANDO L’iter è lungo, procede a singhiozzo e pesantemente condizionato dalle scarse fortune della squadra di calcio. Nel frattempo la gestione dello stadio è paradossale. Durante il campionato ha la capienza ridotta, ma d’estate si apre a concerti da 20.000 persone in barba alla parziale agibilità (e alle obiezioni sollevate dalle Rappresentanze sindacali di base, spesso polemiche con i permessi concessi da Abramo e Costa al promoter di turno). Strano destino quello del Ceravolo, stravolto dal processo inverso a quello che l’aveva portato all’aumento dei posti in stretta misura con i campionati importanti disputati dal Catanzaro tra gli anni 60 e gli albori degli anni 80. Poi ai vertici della società arrivano Massimo Poggi e Claudio Parente. È il 2003. E al Comune tornano a parlare di “stadio nuovo”.
IL SOGNO DI MAX L’area demaniale è finalmente acquisita e il Consiglio comunale studia la concessione dello stadio (per 99 anni) alla Medical sport center, società che controlla la maggioranza azionaria dell’Unione sportiva Catanzaro. Il fallimento dell’Uesse 1929 sembra impossibile e l’intraprendente Max Poggi sogna in grande. “Vogliamo realizzare uno stadio all’inglese di almeno 28.000 posti, collocato in un’area urbanistica diversa e circondata da comode strade d’accesso e ampi parcheggi. Offrirà tanti posti di lavoro – dirà durante una conferenza stampa a dicembre – e sarà una struttura che avrà, in altri campi, una importanza non inferiore a quella a suo tempo avuta dalla costruzione del ponte Morandi”. Per l’ex amministratore delegato dell’Uesse il nuovo Ceravolo avrebbe permesso “di rintracciare altre risorse finanziare per il calcio”. E andava fatto in un’area diversa da quella attuale, meno congestionata e facilmente raggiungibile, precisamente in zona Germaneto.
Gennaio 2004: Poggi aggiusta il tiro a margine di un’altra conferenza stampa. “Il Catanzaro avrà una nuova struttura accogliente sette giorni su sette. Il nuovo Ceravolo – spiega – rimarrà dov’è e si sfrutteranno al meglio gli spazi esistenti. Lo storico pino non verrà toccato ma rimarrà fuori dalle gradinate. Il tutto eseguito a norma Uefa, così da ritrovarsi un impianto valido per eventi internazionali”. Il quartiere Germaneto (opzione contestata dai tradizionalisti) passa di moda, e il grande impianto calcistico-commerciale dovrebbe quindi sorgere sulle ceneri (si fa per dire) del ex militare diventato comunale che, tra una cosa e l’altra, è stato intitolato al presidente dei presidenti giallorossi, Nicola Ceravolo.
IL PLASTICO DELLE MERAVIGLIE A marzo il Consiglio approva la pratica e l’assessore al ramo in carica, Tony Sgromo, nel pieno di una conferenza stampa impreziosita da un plastico che ipotizza un futuribile Ceravolo un po’ “Marassi” un po’ “Anfield road”, dirà che “il nuovo stadio è un’esigenza ormai irrinunciabile”. Il Comune, afferma con orgoglio Sgromo, “aveva già da tempo in programma il suo rifacimento e avevamo ottenuto dal Credito sportivo un finanziamento di 14 miliardi di vecchie lire per rifare curve, il settore distinti e la tribuna coperta seguendo un progetto approvato dal Coni”. I succitati miliardi, trasformati in euro a cifre non meglio precisate, si perdono per strada. L’U.s. Catanzaro infila due tornei di serie B infamanti e nel cuore dell’estate 2006 fallisce miseramente. E il plastico mostrato ai cronisti in pompa magna? Finito chissà dove.
PUNTO E A CAPO Con la morte dell’Unione sportiva, il Ceravolo sembra destinato a stessa sorte. Il pino marittimo è spacciato, gran parte dell’albero che ha reso unica la curva ovest (e lo stesso stadio) è rinsecchito da una specie di processionaria curata con enorme ritardo. La tribuna coperta ha più buchi di una gigantesca forma di emmenthal, quella per i giornalisti era moderna quando in tv andava in onda il “90° minuto” di Paolo Valenti, i bagni sono un po’ ovunque impraticabili. Spariscono un prefabbricato adibito a sala stampa e bouvette montato ad hoc per la serie B sul tetto degli spogliatoi, e si portano dietro pure alcune sedie imbottite dalla tribuna stampa. Il Ceravolo è lo stadio più triste d’Italia ma il calcio deve continuare e subito dopo il fallimento dell’Uesse nasce il Football club di Giancarlo Pittelli, grazie al famigerato Lodo Petrucci. Secondo un copione ormai consumato anche l’avvocato catanzarese comincia a pressare il Comune per garantire (quanto meno) la manutenzione dell’impianto. A palazzo De Nobili si è appena insediata la giunta Olivo e il neo assessore allo Sport, Danilo Gatto, non può che prender di petto la questione, anche perché le misure di sicurezza sono ancora più toste e adesso senza tornelli e varchi elettronici si chiude.
CANTIERE APERTO La giunta Olivo va oltre e attraverso gli assessori Gatto e Roberto Talarico (sensibile alle tematiche giallorosse ma inizialmente convinto che il Ceravolo non fosse un problema da inserire in agenda) delibera faticosamente nuovi lavori che portano gradualmente alla chiusura dei “distinti”. Passano mesi, anni. Nel 2010 il Football club fallisce e al Comune fanno appena in tempo a indire la gara d’appalto (aggiudicata dalle imprese edili Guzzo e Costantino). Sulla carta bisognava mettersi sotto in fretta e furia, ma quando la giunta Olivo esaurisce la sua attività amministrativa e al suo posto piomba un governo diretto da Michele Traversa, al Ceravolo c’è solo un cantiere accennato. Traversa dura appena sei mesi, ma troverà il modo di promettere impegno al vulcanico e determinato Giuseppe Cosentino, comunque costretto ad accontentarsi dei 7.500 posti. Passa un altro anno, passa il campionato, i catanzaresi festeggiano la promozione e corrono ad animare l’ennesima tornata elettorale, dalle urne salta fuori Sergio Abramo sindaco (per la terza volta) e la palla torna a chi l’aveva lanciata. Siamo ai giorni nostri. Il Ceravolo è un cantiere aperto ma deve chiudere entro luglio. Il presidente del Catanzaro marca stretto e controlla lo sviluppo dei lavori necessari a mantenere la capienza ridotta, sperando che i tempi vengano rispettati sul serio. Per spogliatoi e tribuna stampa non è rimasto un euro. Lo “stadio nuovo” può aspettare. C’è chi crede che in fondo non valga più la pena di investire su un impianto che, logisticamente parlando, è a dir poco anacronistico. Non è che (a conti fatti) conviene farlo in periferia? (continua)
Ivan Montesano
Stadio Ceravolo (2): dal Militare al sogno del “Marassi”
CATANZARO. Dai 35mila del Militare ricavati tra gli anni ’60 e ’70, a colpi di lavori su lavori, si passa a metà degli anni ’90 ad una capienza massima di 15mila. Poi, il limite cala a 13mila, infine a 11mila 500. Fino ad una inaccettabile riduzione di 7mila 500 dell’era Cosentino che non ci sta e chiede un impianto capiente per progetti ambiziosi. Forse, non conviene più investire su questa struttura
Oggi come ieri la questione “nuovo stadio” è tra le mani di una giunta comunale guidata da Sergio Abramo, al terzo mandato da sindaco. Dalla sua prima volta (13 anni fa, giorno più giorno meno) a oggi un po’ tutti i governi locali (anche quelli non guidati da Abramo) li hanno passati a trattare il Ceravolo come una forma di das da plasmare assecondando le necessità del momento. Continui maquillage architettonici, periodici restyling, ritocchi strutturali per stare al passo con le sempre più rigide (e in continua evoluzione) norme in materia di sicurezza negli impianti sportivi.
EFFETTO ITALIA 90 Non è certo una botta di lungimiranza che porta la prima giunta Abramo a esporsi sulla spinosa vicenda. È quello che potremmo definire “effetto Italia 90”, la spinta data al rinnovamento degli stadi dall’organizzazione dei mondiali, tra l’altro già stimolata dal cieco bisogno statale di istituire un sistema di controllo (e repressione) sulle tifoserie organizzate. Un’onda che tocca anche il vecchio Militare, fiero dei suoi 35.000 circa ricavati tra gli anni ‘60 e ‘70 a colpi di lavori su lavori, dalla “torretta” in curva est (comunemente detta “stricatura” per la sua straordinaria somiglianza a un lavatoio) ai gradini raddoppiati in curva ovest su suggerimento (vuole la leggenda) di Gianni Di Marzio, tecnico giallorosso nei dorati tempi della serie A. A metà del ’90, nel periodo nero della storia giallorossa moderna, gli spettatori non possono essere più di 15.000, poi calano a 13.000, infine 11.500. Taglio dopo taglio il Militare arriva alla fine del secolo. E con Abramo al potere (e Aldo Costa assessore allo Sport) l’amministrazione comunale avvia l’iter per acquisire l’area dello stadio (compreso il mitico campo “dietro i distinti”) dal Demanio.
AGIBILITA’ A COMANDO L’iter è lungo, procede a singhiozzo e pesantemente condizionato dalle scarse fortune della squadra di calcio. Nel frattempo la gestione dello stadio è paradossale. Durante il campionato ha la capienza ridotta, ma d’estate si apre a concerti da 20.000 persone in barba alla parziale agibilità (e alle obiezioni sollevate dalle Rappresentanze sindacali di base, spesso polemiche con i permessi concessi da Abramo e Costa al promoter di turno). Strano destino quello del Ceravolo, stravolto dal processo inverso a quello che l’aveva portato all’aumento dei posti in stretta misura con i campionati importanti disputati dal Catanzaro tra gli anni 60 e gli albori degli anni 80. Poi ai vertici della società arrivano Massimo Poggi e Claudio Parente. È il 2003. E al Comune tornano a parlare di “stadio nuovo”.
IL SOGNO DI MAX L’area demaniale è finalmente acquisita e il Consiglio comunale studia la concessione dello stadio (per 99 anni) alla Medical sport center, società che controlla la maggioranza azionaria dell’Unione sportiva Catanzaro. Il fallimento dell’Uesse 1929 sembra impossibile e l’intraprendente Max Poggi sogna in grande. “Vogliamo realizzare uno stadio all’inglese di almeno 28.000 posti, collocato in un’area urbanistica diversa e circondata da comode strade d’accesso e ampi parcheggi. Offrirà tanti posti di lavoro – dirà durante una conferenza stampa a dicembre – e sarà una struttura che avrà, in altri campi, una importanza non inferiore a quella a suo tempo avuta dalla costruzione del ponte Morandi”. Per l’ex amministratore delegato dell’Uesse il nuovo Ceravolo avrebbe permesso “di rintracciare altre risorse finanziare per il calcio”. E andava fatto in un’area diversa da quella attuale, meno congestionata e facilmente raggiungibile, precisamente in zona Germaneto.
Gennaio 2004: Poggi aggiusta il tiro a margine di un’altra conferenza stampa. “Il Catanzaro avrà una nuova struttura accogliente sette giorni su sette. Il nuovo Ceravolo – spiega – rimarrà dov’è e si sfrutteranno al meglio gli spazi esistenti. Lo storico pino non verrà toccato ma rimarrà fuori dalle gradinate. Il tutto eseguito a norma Uefa, così da ritrovarsi un impianto valido per eventi internazionali”. Il quartiere Germaneto (opzione contestata dai tradizionalisti) passa di moda, e il grande impianto calcistico-commerciale dovrebbe quindi sorgere sulle ceneri (si fa per dire) del ex militare diventato comunale che, tra una cosa e l’altra, è stato intitolato al presidente dei presidenti giallorossi, Nicola Ceravolo.
IL PLASTICO DELLE MERAVIGLIE A marzo il Consiglio approva la pratica e l’assessore al ramo in carica, Tony Sgromo, nel pieno di una conferenza stampa impreziosita da un plastico che ipotizza un futuribile Ceravolo un po’ “Marassi” un po’ “Anfield road”, dirà che “il nuovo stadio è un’esigenza ormai irrinunciabile”. Il Comune, afferma con orgoglio Sgromo, “aveva già da tempo in programma il suo rifacimento e avevamo ottenuto dal Credito sportivo un finanziamento di 14 miliardi di vecchie lire per rifare curve, il settore distinti e la tribuna coperta seguendo un progetto approvato dal Coni”. I succitati miliardi, trasformati in euro a cifre non meglio precisate, si perdono per strada. L’U.s. Catanzaro infila due tornei di serie B infamanti e nel cuore dell’estate 2006 fallisce miseramente. E il plastico mostrato ai cronisti in pompa magna? Finito chissà dove.
PUNTO E A CAPO Con la morte dell’Unione sportiva, il Ceravolo sembra destinato a stessa sorte. Il pino marittimo è spacciato, gran parte dell’albero che ha reso unica la curva ovest (e lo stesso stadio) è rinsecchito da una specie di processionaria curata con enorme ritardo. La tribuna coperta ha più buchi di una gigantesca forma di emmenthal, quella per i giornalisti era moderna quando in tv andava in onda il “90° minuto” di Paolo Valenti, i bagni sono un po’ ovunque impraticabili. Spariscono un prefabbricato adibito a sala stampa e bouvette montato ad hoc per la serie B sul tetto degli spogliatoi, e si portano dietro pure alcune sedie imbottite dalla tribuna stampa. Il Ceravolo è lo stadio più triste d’Italia ma il calcio deve continuare e subito dopo il fallimento dell’Uesse nasce il Football club di Giancarlo Pittelli, grazie al famigerato Lodo Petrucci. Secondo un copione ormai consumato anche l’avvocato catanzarese comincia a pressare il Comune per garantire (quanto meno) la manutenzione dell’impianto. A palazzo De Nobili si è appena insediata la giunta Olivo e il neo assessore allo Sport, Danilo Gatto, non può che prender di petto la questione, anche perché le misure di sicurezza sono ancora più toste e adesso senza tornelli e varchi elettronici si chiude.
CANTIERE APERTO La giunta Olivo va oltre e attraverso gli assessori Gatto e Roberto Talarico (sensibile alle tematiche giallorosse ma inizialmente convinto che il Ceravolo non fosse un problema da inserire in agenda) delibera faticosamente nuovi lavori che portano gradualmente alla chiusura dei “distinti”. Passano mesi, anni. Nel 2010 il Football club fallisce e al Comune fanno appena in tempo a indire la gara d’appalto (aggiudicata dalle imprese edili Guzzo e Costantino). Sulla carta bisognava mettersi sotto in fretta e furia, ma quando la giunta Olivo esaurisce la sua attività amministrativa e al suo posto piomba un governo diretto da Michele Traversa, al Ceravolo c’è solo un cantiere accennato. Traversa dura appena sei mesi, ma troverà il modo di promettere impegno al vulcanico e determinato Giuseppe Cosentino, comunque costretto ad accontentarsi dei 7.500 posti. Passa un altro anno, passa il campionato, i catanzaresi festeggiano la promozione e corrono ad animare l’ennesima tornata elettorale, dalle urne salta fuori Sergio Abramo sindaco (per la terza volta) e la palla torna a chi l’aveva lanciata. Siamo ai giorni nostri. Il Ceravolo è un cantiere aperto ma deve chiudere entro luglio. Il presidente del Catanzaro marca stretto e controlla lo sviluppo dei lavori necessari a mantenere la capienza ridotta, sperando che i tempi vengano rispettati sul serio. Per spogliatoi e tribuna stampa non è rimasto un euro. Lo “stadio nuovo” può aspettare. C’è chi crede che in fondo non valga più la pena di investire su un impianto che, logisticamente parlando, è a dir poco anacronistico. Non è che (a conti fatti) conviene farlo in periferia? (continua)
Ivan Montesano
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