Un breve viaggio notturno nella sede di Phonemedia, la base operativa del call-center catanzarese occupata a tempo indeterminato, dai primi di dicembre, e le storie di alcuni dipendenti licenziati in tronco ma non ancora rassegnati all'idea di aver perso il lavoro
Roberto ha 42 anni, è cortese e disponibile e non ha peli sulla lingua quando parla del suo lavoro. Dai primi di dicembre ha deciso di presidiare la sede operativa del call-center di Catanzaro, presso cui ha lavorato fino a quando i vertici dell’azienda lo hanno ritenuto opportuno. Poi, il vuoto completo. Niente lavoro, niente stipendio. Fa i turni per dormire in una delle stanze adibite a dormitorio: sacchi a pelo, materassini e qualche sedia pieghevole, un forellino a gas per fare il caffè e computer accesi. Su uno dei muri della saletta del primo piano, una piccola rassegna stampa che ricostruisce la storia di questa fabbrica di servizi telefonici. Accanto a lui, alcuni dipendenti che hanno condiviso una forma di protesta disperata per non arrendersi definitivamente al dramma della disoccupazione. Un filo di speranza li tiene in vita. La sua giornata, da quando è incominciata questa brutta storia, si svolge lì, in via Magna Grecia, dove qualche anno fa è sorta una sede grande e moderna, per dare lavoro a migliaia di operatori in gran parte calabresi, ma non solo. Giovani e meno giovani attaccati, ore e ore, alle cuffie e al microfono per rispondere alle informazioni più svariate dei clienti delle varie compagnie telefoniche. Quella che descrive Roberto è la nuova frontiera del lavoro ripetitivo che assorbe chiunque e che non risparmia nessuno. Affiorano i segnali del mobbing, del pugno duro usato dai dirigenti di settore, della pressione costante sugli operatori per ottenere il massimo. Ma lui ha i piedi per terra e non ne fa una questione ideologica, ritiene semplicemente sacrosanto difendere il proprio posto di lavoro. E’ stato assunto a tempo indeterminato nell’ottobre 2008, dopo essere andato avanti, anno dopo anno, a suon di provvigioni, e non intende cedere di un millimetro. “Vedi questo piazzale? – osserva indicando fuori -. Fino a poco tempo fa, era stracolmo di macchine. Vedi quanto è grande? – continua – ecco, non abbastanza da contenerle tutte. Infatti, molte auto rimanevano sulla strada principale. Ciò dimostra il numero esagerato dei dipendenti. Ora è una spianata brulla e desolante, questo è quello che rimane del call-center: il nulla”. Quella di Phonemedia, è una vicenda difficile da mandare giù. Non ha un solo protagonista e presenta molti punti oscuri. Il Tribunale fallimentare di Roma ha in mano le carte ma la procedura sembra lenta e tortuosa. I risvolti e gli intrecci sono ancora tutti da rivelare. Politica, imprenditori, uomini senza scrupoli sembrano essere i protagonisti di una vicenda molto triste che rischia di lasciare sul lastrico migliaia di famiglie. Ciò che appare chiaro, comunque, è che questo gruppo azionario rappresentato da Omega, una società (la cui sede legale è in un sottoscala di Londra) a cui è stato venduto l’intero pacchetto azionario formato da Agila e Phonemedia non opera più, ha deciso di cessare l’attività e licenziare i propri dipendenti (anche se formalmente risultano ancora dipendenti). In Italia, sono orientativamente 10mila i lavoratori che hanno perso il posto di lavoro, in Calabria circa 2mila. E Roberto è una delle tante vittime.
22 e trenta circa, la sede di via Magna Grecia è buia, il cancello in ferro scorrevole è sbarrato, una catena avvolge i due i sostegni e dalla parte interna si nota un bidone dell’immondizia come baluardo difensivo. Al secondo piano, però si intravedono le luci. Uno squillo al cellulare e scende Danilo, un ragazzo tranquillo che ci conduce al secondo piano, dove attendono altre persone. L’atmosfera non è triste. Le ore, in qualche modo, passano. Riflessioni, silenzi e qualche risata caratterizzano l’umore collettivo. C’è anche una donna, quella sera, l’unica per la verità. Teresa dorme lì, viene da Novara ed era un supervisor, un ruolo di responsabilità che si è conquistata dopo una buona gavetta. Prima di decidere di fare questo lavoro gestiva un bar nella sua città. Poi la vita le ha indicato un’altra strada, quella dei call-center e ha iniziato proprio da Novara dove ha lavorato per quattro anni di seguito. Successivamente, il trasferimento a Catanzaro per altri due anni ma questa volta da supervisore, fino alla chiusura dell’azienda. Teresa ha 28 anni, coordinava 46 persone, stava bene, ora invece è lì, insieme ai suoi colleghi a sperare di ricominciare a lavorare. Così come Gianluca, catanzarese, musicista, anche lui appeso alla speranza di ricominciare.
E’ stato assunto con un contratto a tempo determinato part-time. E poi ci sono altri giovani che neppure immaginano più un futuro e che iniziano a pensare ad andar via. Verso le 23 e trenta sale il caffè, un buon odore rinfranca l’animo.
La macchinetta va bene per tutti ma qualcuno preferisce un goccio d’amaro.
La notte è vicina. Un’altra notte fredda, carica d’attesa e di buoni auspici. Si pensa ad organizzare le future forme di lotta. Per il momento è meglio riposare un po’. Roberto ci conduce verso l’uscita, tra saluti e ringraziamenti. Di quella sera rimane il ricordo di persone oneste, umili, che credono nel lavoro e di gente senza scrupoli di cui la nostra regione è satura.
Materassini, caffè e un’occasione svanita…
Un breve viaggio notturno nella sede di Phonemedia, la base operativa del call-center catanzarese occupata a tempo indeterminato, dai primi di dicembre, e le storie di alcuni dipendenti licenziati in tronco ma non ancora rassegnati all'idea di aver perso il lavoro
Roberto ha 42 anni, è cortese e disponibile e non ha peli sulla lingua quando parla del suo lavoro. Dai primi di dicembre ha deciso di presidiare la sede operativa del call-center di Catanzaro, presso cui ha lavorato fino a quando i vertici dell’azienda lo hanno ritenuto opportuno. Poi, il vuoto completo. Niente lavoro, niente stipendio. Fa i turni per dormire in una delle stanze adibite a dormitorio: sacchi a pelo, materassini e qualche sedia pieghevole, un forellino a gas per fare il caffè e computer accesi. Su uno dei muri della saletta del primo piano, una piccola rassegna stampa che ricostruisce la storia di questa fabbrica di servizi telefonici. Accanto a lui, alcuni dipendenti che hanno condiviso una forma di protesta disperata per non arrendersi definitivamente al dramma della disoccupazione. Un filo di speranza li tiene in vita. La sua giornata, da quando è incominciata questa brutta storia, si svolge lì, in via Magna Grecia, dove qualche anno fa è sorta una sede grande e moderna, per dare lavoro a migliaia di operatori in gran parte calabresi, ma non solo. Giovani e meno giovani attaccati, ore e ore, alle cuffie e al microfono per rispondere alle informazioni più svariate dei clienti delle varie compagnie telefoniche. Quella che descrive Roberto è la nuova frontiera del lavoro ripetitivo che assorbe chiunque e che non risparmia nessuno. Affiorano i segnali del mobbing, del pugno duro usato dai dirigenti di settore, della pressione costante sugli operatori per ottenere il massimo. Ma lui ha i piedi per terra e non ne fa una questione ideologica, ritiene semplicemente sacrosanto difendere il proprio posto di lavoro. E’ stato assunto a tempo indeterminato nell’ottobre 2008, dopo essere andato avanti, anno dopo anno, a suon di provvigioni, e non intende cedere di un millimetro. “Vedi questo piazzale? – osserva indicando fuori -. Fino a poco tempo fa, era stracolmo di macchine. Vedi quanto è grande? – continua – ecco, non abbastanza da contenerle tutte. Infatti, molte auto rimanevano sulla strada principale. Ciò dimostra il numero esagerato dei dipendenti. Ora è una spianata brulla e desolante, questo è quello che rimane del call-center: il nulla”. Quella di Phonemedia, è una vicenda difficile da mandare giù. Non ha un solo protagonista e presenta molti punti oscuri. Il Tribunale fallimentare di Roma ha in mano le carte ma la procedura sembra lenta e tortuosa. I risvolti e gli intrecci sono ancora tutti da rivelare. Politica, imprenditori, uomini senza scrupoli sembrano essere i protagonisti di una vicenda molto triste che rischia di lasciare sul lastrico migliaia di famiglie. Ciò che appare chiaro, comunque, è che questo gruppo azionario rappresentato da Omega, una società (la cui sede legale è in un sottoscala di Londra) a cui è stato venduto l’intero pacchetto azionario formato da Agila e Phonemedia non opera più, ha deciso di cessare l’attività e licenziare i propri dipendenti (anche se formalmente risultano ancora dipendenti). In Italia, sono orientativamente 10mila i lavoratori che hanno perso il posto di lavoro, in Calabria circa 2mila. E Roberto è una delle tante vittime.
22 e trenta circa, la sede di via Magna Grecia è buia, il cancello in ferro scorrevole è sbarrato, una catena avvolge i due i sostegni e dalla parte interna si nota un bidone dell’immondizia come baluardo difensivo. Al secondo piano, però si intravedono le luci. Uno squillo al cellulare e scende Danilo, un ragazzo tranquillo che ci conduce al secondo piano, dove attendono altre persone. L’atmosfera non è triste. Le ore, in qualche modo, passano. Riflessioni, silenzi e qualche risata caratterizzano l’umore collettivo. C’è anche una donna, quella sera, l’unica per la verità. Teresa dorme lì, viene da Novara ed era un supervisor, un ruolo di responsabilità che si è conquistata dopo una buona gavetta. Prima di decidere di fare questo lavoro gestiva un bar nella sua città. Poi la vita le ha indicato un’altra strada, quella dei call-center e ha iniziato proprio da Novara dove ha lavorato per quattro anni di seguito. Successivamente, il trasferimento a Catanzaro per altri due anni ma questa volta da supervisore, fino alla chiusura dell’azienda. Teresa ha 28 anni, coordinava 46 persone, stava bene, ora invece è lì, insieme ai suoi colleghi a sperare di ricominciare a lavorare. Così come Gianluca, catanzarese, musicista, anche lui appeso alla speranza di ricominciare.
E’ stato assunto con un contratto a tempo determinato part-time. E poi ci sono altri giovani che neppure immaginano più un futuro e che iniziano a pensare ad andar via. Verso le 23 e trenta sale il caffè, un buon odore rinfranca l’animo.
La macchinetta va bene per tutti ma qualcuno preferisce un goccio d’amaro.
La notte è vicina. Un’altra notte fredda, carica d’attesa e di buoni auspici. Si pensa ad organizzare le future forme di lotta. Per il momento è meglio riposare un po’. Roberto ci conduce verso l’uscita, tra saluti e ringraziamenti. Di quella sera rimane il ricordo di persone oneste, umili, che credono nel lavoro e di gente senza scrupoli di cui la nostra regione è satura.
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