Ne parla Giorgio Matteucci, ricercatore del Cnr, in un'intervista in cui rivela i rischi legati alla costruzione delle centrali sul territorio. Secondo le associazioni ambientaliste l'eccessivo disboscamento di alcune aree della Calabria ha raggiunto livelli evidenti. Ma lo studioso avverte: "E' vero, in alcuni casi può apparire così, ma bisogna capire di che si tratta".
Le associazioni ambientaliste hanno recentemente denunciato l’eccessivo disboscamento di alcune aree della Calabria. E’ possibile avere dati scientifici relativi a questo fenomeno?
“Tecnicamente non è corretto parlare di “disboscamento”, dato che il “disboscamento” di un’area forestale è una operazione “vietata”, passibile di azione penale. Va anche tenuto presente che un bosco “tagliato” da un punto di vista di uso del suolo è ancora un bosco. Tecnicamente, nell’inventario forestale nazionale, queste aree vengono definite “aree temporaneamente prive di soprassuolo”. Questo perché ci si aspetta che il bosco ricresca o venga ripiantato. Ritengo quindi che si tratti di operazioni di “sovrasfruttamento” o “gestione forestale non sostenibile” che, in alcune realtà e se protratte nel tempo, potrebbero portare a perdite reali di superficie forestale (in pratica il rischio che il bosco venga eccessivamente degradato e non recuperi “naturalmente” la situazione prima dell’intervento e che quindi l’area diventi realmente degradata o deforestata). Da un punto di vista scientifico ci sono vari modi per ottenere dati in proposito. Nel breve periodo, si tratterebbe di analizzare le richieste di autorizzazione al taglio e confrontarle con immagini aeree nel corso degli anni, per valutare la rispondenza tra superfici richieste/autorizzate e superfici effettivamente tagliate. Nel “lungo periodo” (ma non così tanto alla fine…), la ripetizione dell’inventario forestale fornirà dati effettivi e reali, su scala regionale (e anche provinciale, sebbene con maggiori incertezze), sui cambiamenti di superficie forestale. L’inventario attuale ha come riferimento il 2005 e dovrebbe essere ripetuto nel 2012-2013, quindi abbraccerebbe pienamente il periodo “incriminato””.
E’ vero che tra le zone maggiormente disboscate (o a rischio disboscamento), c’è la Sila?
“Da esperienza diretta, in aree della Sila Greca, c’è effettivamente l’impressione che nei rimboschimenti di pino laricio fatti negli anni ’60 sia in atto un’azione di taglio abbastanza ampia. Non è sicuramente il caso delle aree inserite nel territorio del Parco della Sila. Il problema è capire cosa succede a quelle aree tagliate dopo il taglio (vedi risposta alla prima domanda) ma – occhio! – in alcune aree non semba esserci azione di piantagione di giovani piante. E’ anche possibile che il taglio non sia “a raso” (cioè tutte le piante su una data superficie) ma che vengano rilasciate alcune piante ad ettaro, ma, in questo caso, le possibilità di recupero del bosco sono legate alla presenza e allo stato della rinnovazione naturale che può essere anche danneggiata dalle operazioni di esbosco. Ora, se è vero che quei rimboschimenti a 40-50 anni di età avessero bisogno di interventi di gestione forestale per migliorarne lo stato, favorirne lo sviluppo e, magari, gestire/favorire l’eventuale presenza di altre specie oltre al pino, è anche vero che alcuni degli interventi visti sono andati oltre questi obiettivi di gestione forestale “ragionevole”/sostenibile, mettendo a rischio il recupero delle aree e aprendo la strada, in alcuni casi, all’erosione del suolo. Infatti, in generale, in un’area come la Sila, per le condizioni del suolo e climatiche (pioggia rilevante), la gestione forestale dovrebbe tenere nel giusto conto la prevenzione dell’erosione dei versanti. Ovviamente, se sostenibile, i piani di gestione e gli interventi considerano questi aspetti, nei casi nei quali si è andati oltre invece no. Un altro problema è costituito dal sovrasfruttamento dei cedui, in particolare quelli di castagno sulla Sila, nelle Serre, nella Catena Costiera. I castagneti hanno in genere una buona capacità di recupero ma, nel lungo termine, potrebbero degradarsi significativamente”.
E’ verosimile che tale fenomeno sia da porre in relazione con interessi imprenditoriali “nuovi” per il nostro territorio?
“È possibile anche perché nessuno fa operazioni forestali se non ha un ritorno economico. A tal proposito, tagliare “di più” di quanto sarebbe consentito dalle autorizzazioni o dalle buone pratiche di gestione forestale è anche un modo di “ovviare” (illegalmente) al problema del basso ritorno economico di operazioni forestali che asportino minori quantità di legno”.
In caso andassero in porto i progetti di centrali a biomasse, di cui tanto si parla, non c’è il rischio che in assenza di una seria politica sulla raccolta differenziata e lo stoccaggio dei rifiuti, si proceda con il taglio indiscriminato dei boschi?
“Le due cose non hanno in realtà grande correlazione. Questo perché, generalmente, i progetti per centrali a biomasse non prevedono l’uso di rifiuti per la produzione di energia, per evitare (ulteriori) problemi con autorizzazioni e popolazioni locali. Inoltre, l’uso di legno, raccolto in aree vicino alla centrale, determina una maggiore “remunerazione” del certificato verde (il massimo si ha per raccolte in un raggio di 70 km dalla Centrale). Quindi, chi progetta centrali generalmente fa piani di approvvigionamento (da vedere quanto realistici) nelle vicinanze della Centrale stessa. In realtà, il timore è quello che, in assenza di altro materiale, si finisca per bruciare rifiuti. Altro discorso è quello della sostenibilità delle centrali a biomasse per due fattori: a) la dimensione delle centrali; b) il numero dei progetti presentati. Rispetto al primo punto: la biomassa da legno (o altre fonti agricole) è una risorsa rinnovabile che, quindi, ha prospettive di uso positive (bilancio quasi zero di emissioni di CO2 per la produzione di energia, rinnovabilità della risorsa, possibilità di gestione forestale sostenibile per l’approvvigionamento, ecc.). Questo è però vero per progetti a dimensione piccola o media, con l’ottimo per impianti di 1-3 MW a servizio di comunità locali. Il problema è che con queste dimensioni il ritorno economico è su scala locale e le grandi compagnie/società hanno interesse a ritorni molto più alti dati anche dall’uso e la vendita di certificati verdi. E’ questo che determina il fatto che vengono presentati progetti di grande dimensione, raramente sostenibili dal territorio. Per il secondo punto, e riallacciandosi all’ultima considerazione, i progetti previsti in Calabria, se realizzati, non troveranno a scala locale, biomassa sufficiente, con rischi di sovrasfruttamento e conseguente degrado dei boschi esistenti. Infatti, se è vero che la Regione è ricca di risorse forestali e ci sarebbe lo spazio per un maggior “sfruttamento” anche positivo e sostenibile, riportando la gestione in aree dove attualmente non viene più fatta, il numero e la dimensione dei progetti va molto aldilà di quanto la risorse forestali della Regione possano sostenere senza risentirne. Fra l’altro, questo è stato già segnalato nel Piano Regionale (mancanza di risorse per supportare le centrali esistenti e in pianificazione)”.
Luci e ombre delle biomasse
Ne parla Giorgio Matteucci, ricercatore del Cnr, in un'intervista in cui rivela i rischi legati alla costruzione delle centrali sul territorio. Secondo le associazioni ambientaliste l'eccessivo disboscamento di alcune aree della Calabria ha raggiunto livelli evidenti. Ma lo studioso avverte: "E' vero, in alcuni casi può apparire così, ma bisogna capire di che si tratta".
Le associazioni ambientaliste hanno recentemente denunciato l’eccessivo disboscamento di alcune aree della Calabria. E’ possibile avere dati scientifici relativi a questo fenomeno?
“Tecnicamente non è corretto parlare di “disboscamento”, dato che il “disboscamento” di un’area forestale è una operazione “vietata”, passibile di azione penale. Va anche tenuto presente che un bosco “tagliato” da un punto di vista di uso del suolo è ancora un bosco. Tecnicamente, nell’inventario forestale nazionale, queste aree vengono definite “aree temporaneamente prive di soprassuolo”. Questo perché ci si aspetta che il bosco ricresca o venga ripiantato. Ritengo quindi che si tratti di operazioni di “sovrasfruttamento” o “gestione forestale non sostenibile” che, in alcune realtà e se protratte nel tempo, potrebbero portare a perdite reali di superficie forestale (in pratica il rischio che il bosco venga eccessivamente degradato e non recuperi “naturalmente” la situazione prima dell’intervento e che quindi l’area diventi realmente degradata o deforestata). Da un punto di vista scientifico ci sono vari modi per ottenere dati in proposito. Nel breve periodo, si tratterebbe di analizzare le richieste di autorizzazione al taglio e confrontarle con immagini aeree nel corso degli anni, per valutare la rispondenza tra superfici richieste/autorizzate e superfici effettivamente tagliate. Nel “lungo periodo” (ma non così tanto alla fine…), la ripetizione dell’inventario forestale fornirà dati effettivi e reali, su scala regionale (e anche provinciale, sebbene con maggiori incertezze), sui cambiamenti di superficie forestale. L’inventario attuale ha come riferimento il 2005 e dovrebbe essere ripetuto nel 2012-2013, quindi abbraccerebbe pienamente il periodo “incriminato””.
E’ vero che tra le zone maggiormente disboscate (o a rischio disboscamento), c’è la Sila?
“Da esperienza diretta, in aree della Sila Greca, c’è effettivamente l’impressione che nei rimboschimenti di pino laricio fatti negli anni ’60 sia in atto un’azione di taglio abbastanza ampia. Non è sicuramente il caso delle aree inserite nel territorio del Parco della Sila. Il problema è capire cosa succede a quelle aree tagliate dopo il taglio (vedi risposta alla prima domanda) ma – occhio! – in alcune aree non semba esserci azione di piantagione di giovani piante. E’ anche possibile che il taglio non sia “a raso” (cioè tutte le piante su una data superficie) ma che vengano rilasciate alcune piante ad ettaro, ma, in questo caso, le possibilità di recupero del bosco sono legate alla presenza e allo stato della rinnovazione naturale che può essere anche danneggiata dalle operazioni di esbosco. Ora, se è vero che quei rimboschimenti a 40-50 anni di età avessero bisogno di interventi di gestione forestale per migliorarne lo stato, favorirne lo sviluppo e, magari, gestire/favorire l’eventuale presenza di altre specie oltre al pino, è anche vero che alcuni degli interventi visti sono andati oltre questi obiettivi di gestione forestale “ragionevole”/sostenibile, mettendo a rischio il recupero delle aree e aprendo la strada, in alcuni casi, all’erosione del suolo. Infatti, in generale, in un’area come la Sila, per le condizioni del suolo e climatiche (pioggia rilevante), la gestione forestale dovrebbe tenere nel giusto conto la prevenzione dell’erosione dei versanti. Ovviamente, se sostenibile, i piani di gestione e gli interventi considerano questi aspetti, nei casi nei quali si è andati oltre invece no. Un altro problema è costituito dal sovrasfruttamento dei cedui, in particolare quelli di castagno sulla Sila, nelle Serre, nella Catena Costiera. I castagneti hanno in genere una buona capacità di recupero ma, nel lungo termine, potrebbero degradarsi significativamente”.
E’ verosimile che tale fenomeno sia da porre in relazione con interessi imprenditoriali “nuovi” per il nostro territorio?
“È possibile anche perché nessuno fa operazioni forestali se non ha un ritorno economico. A tal proposito, tagliare “di più” di quanto sarebbe consentito dalle autorizzazioni o dalle buone pratiche di gestione forestale è anche un modo di “ovviare” (illegalmente) al problema del basso ritorno economico di operazioni forestali che asportino minori quantità di legno”.
In caso andassero in porto i progetti di centrali a biomasse, di cui tanto si parla, non c’è il rischio che in assenza di una seria politica sulla raccolta differenziata e lo stoccaggio dei rifiuti, si proceda con il taglio indiscriminato dei boschi?
“Le due cose non hanno in realtà grande correlazione. Questo perché, generalmente, i progetti per centrali a biomasse non prevedono l’uso di rifiuti per la produzione di energia, per evitare (ulteriori) problemi con autorizzazioni e popolazioni locali. Inoltre, l’uso di legno, raccolto in aree vicino alla centrale, determina una maggiore “remunerazione” del certificato verde (il massimo si ha per raccolte in un raggio di 70 km dalla Centrale). Quindi, chi progetta centrali generalmente fa piani di approvvigionamento (da vedere quanto realistici) nelle vicinanze della Centrale stessa. In realtà, il timore è quello che, in assenza di altro materiale, si finisca per bruciare rifiuti. Altro discorso è quello della sostenibilità delle centrali a biomasse per due fattori: a) la dimensione delle centrali; b) il numero dei progetti presentati. Rispetto al primo punto: la biomassa da legno (o altre fonti agricole) è una risorsa rinnovabile che, quindi, ha prospettive di uso positive (bilancio quasi zero di emissioni di CO2 per la produzione di energia, rinnovabilità della risorsa, possibilità di gestione forestale sostenibile per l’approvvigionamento, ecc.). Questo è però vero per progetti a dimensione piccola o media, con l’ottimo per impianti di 1-3 MW a servizio di comunità locali. Il problema è che con queste dimensioni il ritorno economico è su scala locale e le grandi compagnie/società hanno interesse a ritorni molto più alti dati anche dall’uso e la vendita di certificati verdi. E’ questo che determina il fatto che vengono presentati progetti di grande dimensione, raramente sostenibili dal territorio. Per il secondo punto, e riallacciandosi all’ultima considerazione, i progetti previsti in Calabria, se realizzati, non troveranno a scala locale, biomassa sufficiente, con rischi di sovrasfruttamento e conseguente degrado dei boschi esistenti. Infatti, se è vero che la Regione è ricca di risorse forestali e ci sarebbe lo spazio per un maggior “sfruttamento” anche positivo e sostenibile, riportando la gestione in aree dove attualmente non viene più fatta, il numero e la dimensione dei progetti va molto aldilà di quanto la risorse forestali della Regione possano sostenere senza risentirne. Fra l’altro, questo è stato già segnalato nel Piano Regionale (mancanza di risorse per supportare le centrali esistenti e in pianificazione)”.
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