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Le cooperative sociali passate al setaccio agitando lo spettro della malavita

Le cooperative sociali passate al setaccio agitando lo spettro della malavita

Cosenza, panoramica

COSENZA – Ciao, io sono il mafioso”… “sì, ed io sono la figlia del mafioso”… “ed io la moglie del mafioso”. Non è frequente, in Calabria, incontrare una persona, anzi un’intera famiglia, che ti ferma per la strada e ti rivela la sua appartenenza alla mafia. È ancora più raro vedere che un attimo dopo aver proferito queste parole, gli occhi di padre, madre e figlia si sciolgono in un sorriso amaro, riempiendosi di lacrime.

Michele (nome fittizio) mi viene incontro e racconta la sua storia. Da qualche giorno, è disoccupato. È stato sospeso, perché qualcuno s’è accorto che occupa un posto di lavoro, nonostante abbia dei precedenti penali, dimenticando però che Michele occupa quel posto di lavoro proprio perché ha dei precedenti penali. Potrebbe sembrare un gioco di parole. Invece è la cruda cronaca delle ultime ore, a Cosenza.

Per la maggior parte della cittadinanza, forse, non ha destato sorpresa la notizia dell’arresto, con l’accusa di falso, tentata estorsione e corruzione, di tre presidenti delle cooperative sociali. L’evento conferma che la città ha una nuova “giunta municipale”. È la locale procura della Repubblica. I suoi inquirenti entrano ed escono dal palazzo comunale come fosse casa loro. Indagano sull’assegnazione delle case popolari, sul mancato versamento delle tasse che dovrebbero pagare i palazzinari, e su molto altro. Però, forse in omaggio al mito della Cosenza ribattezzata “l’Atene di Calabria”, succede un fatto strano: il titolo di studio delle persone indagate, arrestate, inquisite, quasi mai è superiore alla terza media. Ed è rarissimo che a finire nei guai giudiziari siano i titolari di studi professionali, i frequentatori delle segreterie personali dei politici, gli iscritti alle logge più o meno coperte. C’è un comprensibile e insistente garantismo nei confronti del notabilato bruzio. Basti pensare che, nonostante i ripetuti roboanti annunci, c’è voluto più d’un mese per conoscere nomi e cognomi dei due politici locali coinvolti in un’altra inchiesta, quella sui rimborsi dei Gratta e Vinci ai consiglieri regionali.

Allora, tra le tante sofisticate vicende giudiziarie avviate negli ultimi mesi, merita più di due righe la storia delle cooperative sociali di tipo B, addette da quasi vent’anni alla manutenzione urbana. La prefettura ha acquisito le documentazioni relative ai precedenti penali di presidenti e consiglieri di queste società per le quali lavoravano 500 dipendenti che guadagnavano meno di 600 euro al mese per curare la manutenzione urbana. Nei casi in cui gli uffici preposti ai controlli hanno riscontrato precedenti penali, veri o presunti che fossero, le cooperative sono state estromesse dal rapporto col Comune. La vicenda è paradossale. Lo spiega l’avvocato Sandro Cerisano, legale delle società interessate dall’interdittiva antimafia: “le Cooperative nascono negli anni 90 per volere dell’allora Sindaco Giacomo Mancini e si prefiggevano di conseguire lo scopo previsto dalla legge, cioè aiutare i soggetti svantaggiati, nel casi di specie ex detenuti e persone che mai lo sono stati, ad essere reinseriti nella società”. Privandoli del lavoro, si ottiene l’unico risultato di spingerli di nuovo verso la scelta rischiosa, ma inevitabile, dell’illegalità. Molti dipendenti, infatti, grazie a questo reddito minimo e ad altre attività, spesso svolte in nero ma pur sempre onestamente, sono riusciti a rifarsi una vita, mantenere famiglia, sopravvivere. Lo ribadisce l’avvocato Cerisano, in una nota: “il 30% di loro, così come previsto dalla legge, è composto da persone che in passato si erano macchiate di precedenti penali. Viceversa, le cooperative non avrebbero raggiunto lo scopo prefissato dalla legge per la loro costituzione”.

Nel mirino del commissario Basettoni e dell’inchiesta giudiziaria, sono finiti anche dipendenti che hanno animato proteste per la difesa del posto di lavoro. Comodo bollarli come “malavitosi”! Così la digos cancella la natura politica e sociale delle loro azioni dimostrative, confinandole nella più reprimibile dimensione della criminalità. E sono stati colpiti persino lavoratori come Giovanni (il nome è fittizio), incensurato, ma indicato come “pregiudicato”, dato addirittura per coniugato con una sua collega di cui non è mai stato marito. Ora si appresta a sporgere querela contro le autorità competenti.

Ai presidenti delle cooperative – prosegue l’avvocato Cerisano – viene contestato che negli anni scorsi sono stati visti, sul territorio, in compagnia di persone pregiudicate senza riferire altro. Praticamente, è bastato che due persone si vedessero, si salutassero, magari consumassero un caffè insieme per arrivare a dire che c’è il rischio di infiltrazione. Inoltre, fanno riferimento a reati consumati e scontati tra gli anni 80 e 90, prima pertanto della creazione delle cooperative sociali il cui scopo, si ribadisce, è proprio quello di reinserire persone svantaggiate”. Difficile, comunque, fare breccia nella fame di forche, che dilaga!

Li hanno acciuffati. Finalmente qualcosa si muove”. È un ritornello ricorrente, dal 1994, quando scattò la seconda maxi operazione antimafia nella storia cittadina del ‘900. Peccato che, nonostante l’ottimismo delle anime pie e le “brillanti” operazioni degli ultimi giorni, l’aria continui ad apparire tutt’altro che pulita. Il rituale si ripete ossessivo. A Cosenza, nei centri del circondario, in tutta la Calabria, prima arrivano le sirene, poi le manette, infine i titoloni sulla stampa locale. E tutti s’illudono che qualcosa stia per cambiare sul serio. Ma basta fare una passeggiata negli uffici pubblici, nelle piazze dello spaccio, sui marciapiedi dove i commercianti versano regolarmente la tangente, per rendersi conto che nulla è cambiato. Nei confronti delle cooperative B, il cittadino medio e gli opinionisti incalliti hanno elaborato un odio viscerale, un rancore catartico: “non lavorano, la città è sporca, stanno tutto il santo giorno al telefonino”. Potrebbe anche essere vero che al loro interno ci fosse qualche scansafatiche, in mezzo a tanta gente che lo stipendio se lo sudava, come del resto accade in ogni ufficio pubblico, nelle scuole, negli ospedali, dovunque. Eh sì, va bene, quante funzionavano come autentiche cooperative, nel senso democratico del termine? Le decisioni si assumevano in modo collegiale?

E però, allargando la visuale, allora verrebbe da chiedersi pure quante delle società attive con tale forma giuridica, quaggiù e nel resto d’Italia, rispondano a questo requisito.

Di certo, quando s’è saputo che la prefettura le sta passando al setaccio per verificare che non ci siano “infiltrazioni mafiose”, in tanti hanno cominciato a sfregarsi le mani. Nella mente dei cittadini più sensibili alle questioni ambientali, è affiorata una speranza: forse è la volta buona che vediamo le nostre strade senza spazzatura; mai più giardini pubblici sommersi dalle erbacce e buche sull’asfalto! Tuttavia, ci vorrebbe qualcosa di meglio della bacchetta magica per riuscire a convincere molti dei residenti nel centro urbano che è arrivato il momento di cambiare “abitudini”. Per esempio, non è più possibile abbandonare cessi vecchi e scaldabagni in prossimità dei cassonetti. E magari sarebbe il caso di cominciare a fare davvero la raccolta differenziata dei rifiuti. Inoltre, come evitare i sistematici vandalismi ai danni di segnali stradali e giardini pubblici? Come prevenire il fiume di cartacce che scorre sul corso principale della città ogni sabato sera? Come convincere la parte meno virtuosa della cittadinanza che non è corretto estirpare le fioriere?

Sorge spontanea un’ulteriore, e definitiva, raffica di domande: cosa c’entrano i dipendenti delle cooperative con tutto questo degrado? È forse colpa loro se il senso civico non alberga nella coscienza di tutti? A chi conviene agitare lo spettro comodo e fuorviante della malavita? E soprattutto, quanto risparmierà l’amministrazione comunale, estirpando “il male”?

pubblicato il 29 maggio 2013 su manifestiamo.eu


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