Hai dato un nome al tuo nemico. Lo chiami “capitalismo”. Faresti di tutto per abbatterlo, partendo da qui, dal posto in cui sei nato e cresciuto. Ti piacerebbe praticare un’altra forma di vita, subito, senza rimandare tutto ad un futuro inverosimile. Quando decidi di stare nei movimenti sociali sai già che andrai incontro a pesanti conseguenze.
A nulla servirà piagnucolare, recriminare, invocare il diritto alla rivoluzione che non è previsto dagli ordinamenti dei paesi cosiddetti “democratici”, tantomeno nelle dittature.
Quando vai coi compagni e le compagne ad urlare sotto i balconi di chi ha gestito i principali consigli d’amministrazione della tua terra seminando solo degrado e povertà, quando fai nomi e cognomi di chi ha devastato la Calabria e si nasconde nelle istituzioni, quando stai dalla parte dei rom e dei migranti, quando occupi spazi sociali e difendi l’ambiente ferito dalle fabbriche di veleni, sai benissimo cosa t’aspetta. Sarai pedinato, perquisito, provocato, arrestato. Rischierai di perdere il posto di lavoro, ti troverai in conflitto con la tua stessa vita ed i tuoi affetti.
E allora perché lo fai? Esibizionismo, egocentrismo, squilibrio psichico malcelato? No, forse la molla che da dentro ti spinge a rompere le scatole, ha un solo nome: indignazione! E spesso è difficile farlo capire persino a chi ti vuole bene. Diverse volte gli amici più cari t’hanno detto: “Stai attento, adesso hai pure una figlia…”. Hai sempre ringraziato, ma risposto con ruvido orgoglio: è proprio per lei che lo faccio. Non posso accettare che viva da precaria, senza diritti, in un mondo inquinato.
Dunque sei allegro e consapevole. C’è però qualcosa che non t’aspetti. Eppure lo hai letto sui libri di storia, e i compagni più vecchi te l’hanno raccontato. Ma tu quasi non ci volevi credere. Pensavi che esagerassero. Finché non ti capita davvero. Accade che uomini al servizio della legalità si mettono a farti dispetti, come bambini capricciosi e vendicativi. Inventano inchieste su reati che non hai mai commesso, ti tendono agguati, ti fracassano le ossa. Ti impediscono di prendere un aereo, ma tu avevi in tasca un regolare biglietto e nessun giudice ti ha mai vietato di viaggiare. Ti sequestrano il computer e te lo restituiscono fracassato. Ti fermano all’uscita dal lavoro e ti smontano la macchina davanti ai genitori dei tuoi alunni. Se arriva in questura la telefonata anonima di un pazzo, dicono di avere riconosciuto la tua voce. Qualsiasi inchiesta aprano, ti ci infilano in mezzo.
Allora cominci a sentirti perseguitato: stavolta sono i mulini a vento che vengono a bussare alla tua porta. E provi una sorta d’imbarazzo con te stesso, perché in fondo non hai ancora stracciato la carta d’identità. Rimani un cittadino di questo Stato.
Poi in un pomeriggio come tanti altri, incontri l’affetto della tua città, l’abbraccio delle persone che si ribellano, il sorriso di un bambino che stringe il pugno chiuso e lo alza verso il cielo. Così riesci a dare un senso a quel che succede. Ti ricordi l’aforisma di Luca, poeta degli Assalti Frontali: “Senza lotta non so essere felice”.
E ti sciogli in una risata.
Articolo pubblicato su Calabria Ora, sabato 23 giugno 2012
Il destino di chi lotta è già scritto
Hai dato un nome al tuo nemico. Lo chiami “capitalismo”. Faresti di tutto per abbatterlo, partendo da qui, dal posto in cui sei nato e cresciuto. Ti piacerebbe praticare un’altra forma di vita, subito, senza rimandare tutto ad un futuro inverosimile. Quando decidi di stare nei movimenti sociali sai già che andrai incontro a pesanti conseguenze.
A nulla servirà piagnucolare, recriminare, invocare il diritto alla rivoluzione che non è previsto dagli ordinamenti dei paesi cosiddetti “democratici”, tantomeno nelle dittature.
Quando vai coi compagni e le compagne ad urlare sotto i balconi di chi ha gestito i principali consigli d’amministrazione della tua terra seminando solo degrado e povertà, quando fai nomi e cognomi di chi ha devastato la Calabria e si nasconde nelle istituzioni, quando stai dalla parte dei rom e dei migranti, quando occupi spazi sociali e difendi l’ambiente ferito dalle fabbriche di veleni, sai benissimo cosa t’aspetta. Sarai pedinato, perquisito, provocato, arrestato. Rischierai di perdere il posto di lavoro, ti troverai in conflitto con la tua stessa vita ed i tuoi affetti.
E allora perché lo fai? Esibizionismo, egocentrismo, squilibrio psichico malcelato? No, forse la molla che da dentro ti spinge a rompere le scatole, ha un solo nome: indignazione! E spesso è difficile farlo capire persino a chi ti vuole bene. Diverse volte gli amici più cari t’hanno detto: “Stai attento, adesso hai pure una figlia…”. Hai sempre ringraziato, ma risposto con ruvido orgoglio: è proprio per lei che lo faccio. Non posso accettare che viva da precaria, senza diritti, in un mondo inquinato.
Dunque sei allegro e consapevole. C’è però qualcosa che non t’aspetti. Eppure lo hai letto sui libri di storia, e i compagni più vecchi te l’hanno raccontato. Ma tu quasi non ci volevi credere. Pensavi che esagerassero. Finché non ti capita davvero. Accade che uomini al servizio della legalità si mettono a farti dispetti, come bambini capricciosi e vendicativi. Inventano inchieste su reati che non hai mai commesso, ti tendono agguati, ti fracassano le ossa. Ti impediscono di prendere un aereo, ma tu avevi in tasca un regolare biglietto e nessun giudice ti ha mai vietato di viaggiare. Ti sequestrano il computer e te lo restituiscono fracassato. Ti fermano all’uscita dal lavoro e ti smontano la macchina davanti ai genitori dei tuoi alunni. Se arriva in questura la telefonata anonima di un pazzo, dicono di avere riconosciuto la tua voce. Qualsiasi inchiesta aprano, ti ci infilano in mezzo.
Allora cominci a sentirti perseguitato: stavolta sono i mulini a vento che vengono a bussare alla tua porta. E provi una sorta d’imbarazzo con te stesso, perché in fondo non hai ancora stracciato la carta d’identità. Rimani un cittadino di questo Stato.
Poi in un pomeriggio come tanti altri, incontri l’affetto della tua città, l’abbraccio delle persone che si ribellano, il sorriso di un bambino che stringe il pugno chiuso e lo alza verso il cielo. Così riesci a dare un senso a quel che succede. Ti ricordi l’aforisma di Luca, poeta degli Assalti Frontali: “Senza lotta non so essere felice”.
E ti sciogli in una risata.
Articolo pubblicato su Calabria Ora, sabato 23 giugno 2012
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