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I funerali di Gallinari tra pugni chiusi e vecchie polemiche mai sopite

I funerali di Gallinari tra pugni chiusi e vecchie polemiche mai sopite

Il vero peccato che viene imputato a Prospero Gallinari contrariamente a quanto saremmo indotti a credere, non è la questione specifica dell’omicidio Moro, di cui pure si assunse la paternità. Il reale torto di uno dei principali militanti delle Brigate rosse fu quello di dimostrare che anche un’organizzazione di diseredati, studenti, precari, operai e contadini, poteva raggiungere dei risultati fino ad allora impensabili, cioè l’attacco diretto  al cuore dello Stato

I funerali di Prospero Gallinari tra i pugni chiusi

Fino alla fine con la schiena dritta!

Un vecchio adagio recita piu’ o meno cosi’: “Nei momenti di tramonto anche gli uomini piccoli hanno ombre lunghe”. È stato proprio questo il primo pensiero che mi è venuto in mente scorrendo le varie testate all’indomani della morte di Prospero Gallinari. Deve essere, piu’ o meno, la stessa cosa che succede nella Savana quando gli avvoltoi, vedendo un animale allo stremo delle proprie forze, inscenano quasi una danza della morte svolazzando intorno ad esso aspettando che diventi cadavere.

Se, per assurdo, provenissimo da Marte e fossimo giunti sulla terra solo di recente e per un qualsiasi motivo credessimo nell’imparzialità e nella professionalità del giornalismo nostrano, potremmo quasi meravigliarci dell’acredine mostrata, tanto nei giudizi quanto nelle ricostruzioni storiche infarcite di dietrologia, soprattutto da una fazione della stampa; guarda caso quella che si è sempre appellata alla carità cristiana quando si trattava di discernere sul caso Priebke.

Avendo vissuto interamente su questo pianeta, risulta facile capire che le cose sono ben diverse da quelle che appaiono di primo acchito. Il vero peccato che viene imputato a Prospero Gallinari contrariamente a quanto saremmo indotti a credere, non è la questione specifica dell’omicidio Moro, di cui pure si assunse la paternità (teoria confutata successivamente sia da Mario Moretti nel 1993 che da Germano Maccari che a sua volta si prese la responsabilità). Nonostante tutti i nodi e tutte le pagine oscure di questa vicenda (in cui anche una delle figlie di Aldo Moro, riconosce una maggiore “lealtà” nel comportamento dei suoi carcerieri, che in quello di coloro che sarebbero dovuti essere i suoi liberatori), il reale torto di Prospero Gallinari fu quello di dimostrare che anche un’organizzazione di diseredati, studenti, precari, operai e contadini, poteva raggiungere dei risultati fino ad allora impensabili, cioè l’attacco diretto  al cuore dello stato. Quello Stato “borghese” – come veniva definito in maniera dispregiativa all’epoca – che non resto’ con le mani in mano, ma anzi, fu egli stesso il primo a dichiarare , con la repressione violenta e mortale degli scioperi di operai e braccianti intenti a chiedere il pane e la democrazia, uniche richieste di scambio da parte di quelle masse rurali costrette a pagare sulla propria pelle il prezzo del boom economico e strappate alle proprie origini ed abitudini e trasformate in manodopera urbana. Tutto molto distante da quelle promesse di progresso e cambiamento venute fuori durante la Resistenza e ben presto tradite tra un tentativo di colpo di stato e l’altro, prima ancora che cominciassero le bombe nelle piazze e sui vagoni, dove sempre lo Stato ebbe, per usare un eufemismo, un atteggiamento non esattamente limpido.

Sebbene quest’articolo non voglia essere una ricostruzione della sua vita da brigatista, (d’altro canto in rete se ne trovano molteplici), è impensabile avventurarsi in qualsiasi disamina della sua vita senza avere presente il contesto in cui si sviluppò ed appena accennato; un contesto che sicuramente fu influenzato dalle sue esperienze personali piu’ intime, come le sue umili origini contadine, per di piu’ in quella Reggio Emilia di quei morti narrati nella celebre canzone di Fausto Amodei.

Quello che mi interessa di piu’ è consegnare un quadro completo sull’uomo Gallinari restituendogli quella dignità a cui tanti hanno attentato in questi giorni; una dignità umana che gli ha consentito di non cedere mai di fronte alle scorciatoie di un falso pentimento dettato da interessi giudiziari, né tanto meno alla dissociazione, ma accettando le conseguenze dei suoi atti  sempre a testa alta. Gallinari è morto da detenuto, mentre stava uscendo dalla sua casa popolare per andare a lavorare per un modesto salario, in un regime di semilibertà dovuto non a grazie concesse (d’altro canto non ne ha mai richieste) ma dalle sue precarie condizioni di salute che gli causarono negli anni ben tre infarti. Fino all’ultimo è riuscito a preservare la sua coerenza e la sua integrità politica, riconosciutagli universalmente anche da chi non sposo’ le sue posizioni. Le posizioni scomode di una persona che ha sacrificato interamente la sua vita (e anche quella altrui) in nome di una causa universale, di una società migliore, di una nuova primavera per tutti gli oppressi della terra e di una guerra da combattere contro chi voleva perpetrare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Sì, a dispetto di chi afferma il contrario, si tratto’ di una vera e propria guerra civile senza esclusioni di colpi, seppur a bassa intensità (come la definiscono tuttora vari analisti stranieri)  e gli innumerevoli casi di tortura a danno dei prigionieri sospettati di essere militanti o simpatizzanti delle Br, tuttora nascosti al grande pubblico, lo certificano. Una dura lotta di classe rivoluzionaria in cui fu un disciplinatissimo “quadro” politico e militare, sempre in prima fila nei luoghi di conflitto metropolitani, dalle fabbriche alle carceri, che oltre ad aver condotto le operazioni, ebbe la lucidità di capire quando il prosieguo non era piu’ possibile e dichiarò, insieme ad altri prigionieri politici il termine dell’esperienza della lotta armata per non lasciare quella sigla in balia di qualche mitomane.

Ma quello che molti non conoscono e che a sentirlo per la prima volta puo’ sembrare paradossale è il lato umano di Gallinari, che ha avuto la sua ultima espressione nell’espianto delle cornee avvenuto dopo la sua morte, in modo da far continuare a vivere i suoi occhi e tutte quelle immagini che avranno immagazzinato e che sicuramente costituirebbero uno dei principali patrimoni visivi della storia recente del nostro paese. Quella stessa umanità per cui non ha mai voluto scrivere una lettera ai familiari delle vittime, perché riteneva cio’ un ulteriore oltraggio al loro dolore, e per cui ha portato avanti una battaglia contro l’effetto estensivo della pena detentiva ai parenti dei detenuti, tra  i primi a questa spinosa questione.

Forse è proprio a causa della sua irriducibile coerenza e forza d’animo che dopo la sua morte è risultato inviso a molti commentatori, al giorno d’oggi l’integrità viene avvertita come un peso di cui disfarsi il prima possibile per poter raggiungere gli agognati traguardi, indifferentemente dal fatto che sia un posto in una qualsiasi redazione o una poltrona; (ancora piu’ beffardo pensare a quella presunta controparte che oggi si annida nelle municipalizzate capitoline).

D’altro canto è difficile immaginare uno scenario differente fino a quando si continuerà ad analizzare un pezzo cruciale della storia del nostro paese attraverso ad una visione faziosa e piegata ad  un uso politico della vicenda facendo regredire vistosamente sia la discussione storica che socile di quel periodo. Poche altre vite come quella di Prospero Gallinari, si potevano identificare altrettanto adeguatamente con le ragioni piu’ intime di chi in quel decennio voleva davvero cambiare il mondo.

Scegliendo di soffermarsi, per l’ennesima volta su una sterile dietrologia, (in) capace di cercare eventuali registi occulti dell’omicidio Moro, si è persa una grossissima occasione per spiegare agli italiani quel difficile periodo al riparo dalle ormai trite e ritrite semplificazioni grossolane purtroppo entrate nell’immaginario comune.

E’ ormai esercizio comune definire gli Anni ’70 come “anni di piombo” piuttosto che un decennio segnato da importantissime conquiste sociali ottenute attraverso delle battaglie estenuanti. Cosi’ come del tutto insufficiente sarebbe una visione che vedrebbe le Br come nient’altro che uno sparuto gruppo di terroristi, isolati, esaltati, ed assassini e non un’organizzazione ramificata, che godeva di parecchi consensi in molte sacche della società, anche perché altrimenti sarebbe stata impensabile una sopravvivenza cosi’ longeva. Fino a quando non si capiranno le ragioni del successo tra le masse deluse dall’eccessivo attendismo del Pci dell’epoca, ma soprattutto fino a quando non ci si renderà conto che i familiari delle vittime di quegli anni esistono da entrambe le parti come in ogni guerra, non si riuscirà mai a liberare  culturalmente la memoria di quegli anni, che tuttora resta dominio privato di una narrazione politica dall’alto che prevede i buoni tutti da un’unica parte (per intenderci, quella degli autori della strategia della tensione che ha insanguinato il nostro paese) ed i terroristi tutti dall’altra; ci sarà inevitabilmente il  rischio di generare delle reazioni esagerate che hanno già dimostrato di  poter creare dei cloni mal riusciti di ciò che è stato  in quegli anni, senza lo stesso contesto, senza lo stesso appoggio e capacità di analisi, ma diventando inconsapevolmente un ulteriore ostacolo al rifiorire di movimenti che non si sono riconosciuti nella riproposizione acritica di quelle pratiche.

Per tutto questo e per molto altro ancora, non possiamo che rilanciare l’appello ad un ripensamento critico di quel periodo e dei suoi principali artefici, non santi, ma nemmeno criminali comuni, come vorrebbero farci pensare quelli che criminali comuni, e della peggiore specie lo sono per davvero, nella convinzione che a non onorare le vittime ( da entrambe le parti ) non sia una disamina come questa, ma la perpetua manipolazione della memoria storica.


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