CATANZARO Una sera umida di fine ottobre 2008 me ne stavo tra le sale del Centro d’aggregazione giovanile per un appuntamento quasi imperdibile: Lucariello in concerto con il suo Cappotto di legno live e molti brani del suo primo album solista, Quiet. La sua perfomance era nel programma del primo (e finora unico) Festival dell’antropologia, che insieme a seminari e incontri offriva tre giorni di musica e spettacolo. La serata al Centro era a cura dalla Vivarium Upc di Riccardo Maria Mottola, quelli del Diagonal jazz, una delle più interessanti e originali manifestazioni musicali mai viste in Calabria dalla metà degli anni 90 in poi. Insomma, un nome una garanzia.
Prima di lui sul palco era salito Amiri Baraka, poeta, saggista, scrittore, critico musicale e drammaturgo, autore (soprattutto) di Blues People (ristampato in Italia da Shake edizioni), una specie di bibbia della cultura popolare afroamericana. Altrettanto imperdibile.
Lucariello
Lucariello, al secolo Luca Caiazzo, è un rapper napoletano molto noto tra gli amanti della scena italiana. Nel suo bagaglio l’esordio artistico con il Clan Vesuvio, una lunga e prolifica collaborazione con gli Almamegretta, tre album e tante altre cose da solista. Il brano Cappotto di legno lo portò alla ribalta delle cronache perché denunciava le minacce camorriste subite dallo scrittore Roberto Saviano. Erano i tempi in cui l’Italia si accorgeva di Gomorra e Scampia. Lucariello portava in giro già da un po’ le sue storie, e quella sera cantò accompagnato da Vince Carpentieri (alla chitarra), Domingo Colasuordo (batteria) e Davide Castronuovo (basso).
Alla fine del live passai un’oretta con lui in camerino per una chiacchierata-intervista che avevamo concordato prima dell’esibizione. Il pezzo doveva uscire su un noto quotidiano on line della mia città con il quale collaboravo, invece è rimasto chiuso nella mia personale miscellanea perché quel giornale ritardava la già misera paga e perciò decisi di interrompere il rapporto proprio in quei giorni.
Rieccolo qua, inedito e ancora profondamente attuale nonostante gli otto anni di distanza. Per dar voce al pensiero di un artista nato fra le strade più difficili di una delle metropoli più difficili del mondo, e che continua il suo prolifico e originale percorso ai margini del mainstream, ispirato da un profondo impegno civile, tanta consapevolezza e altrettanto coraggio.
SIAMO IN GUERRA Il live è finito da pochi minuti fra gli applausi miei e di un centinaio scarso di illuminati concittadini. In una stanza del Centro d’aggregazione giovanile adibita a camerino, Lucariello rifiata con una bottiglietta d’acqua in mano e ricambia i complimenti con larghi sorrisi. È più una chiacchierata che un’intervista e prende subito connotati amichevoli. Gomorra è sulla bocca di tutti. Non appena tocchiamo il discorso il rapper diventa un fiume in piena. “Quando nel resto d’Italia si parla della Calabria, ma anche di Napoli o del sud più in generale, purtroppo al di fuori delle belle coste e del mare, se ne parla come di qualcosa di infernale. Ma stasera qui ho visto una Calabria viva, vera, giovane e non, ho sentito molte più orecchie di quanto ne ho di solito anche se magari c’erano poche persone. C’è voglia di uscire da questo tunnel, siamo in guerra e ce ne stiamo rendendo conto e forse questo è quello che ha fatto nascere un movimento attorno alla vicenda di Roberto Saviano”. Non c’è solo gioventù illuminata e consapevole, purtroppo, anzi sono numerosi i ragazzi che cedono al “fascino” della malavita organizzata e ne riconoscono il ruolo. “In realtà il discorso è molto più semplice di quello che vogliono far passare i media, secondo me. Quando dico siamo in guerra dico che c’è un posto che in qualche modo è occupato dai nemici. I nemici hanno la loro propaganda di regime, quindi chi vive in quel posto non ha la possibilità ne la libertà di poter pensare una cosa diversa. Se vivi in certi posti non puoi parlare male dei casalesi, a esempio… ”.
TUTTI SAPEVAMO Poi è arrivato Roberto Saviano. “Lui ha detto quello che tutti già sapevano, meccanismi già conosciuti portati fuori attraverso un libro e a seguire dai media stessi. Ci siamo incontrati quasi naturalmente, anche perché io stavo un po’ facendo il suo stesso percorso dal punto di vista musicale e la collaborazione è iniziata dopo una sua mail. Viveva su un’isola, sotto scorta, ed era la maniera più sicura per comunicare. Mi disse che le mie canzoni gli tenevano compagnia, e aggiunse che se fosse stato un rapper avrebbe scritto un pezzo sulla sua condizione di vita. Da qui poi è nato Cappotto di legno e la voglia di fare delle cose insieme. Quel giorno dentro di me si è sbloccato qualcosa, e da allora faccio di tutto perchè questa condizione venga comunicata all’esterno. Siamo in guerra, ho scelto da che parte stare e combatto. Se questo deve costarmi la morte sono pronto, ma lo faccio per la mia gente e per tutti i miei fratelli costretti a scappare, per i miei figli che ancora non sono nati. Voglio lasciare questo? Penso di no. Non ho armi, non ho alcun fucile, ma sono altrettanto convinto di non voler lasciare la mia terra nelle mani sbagliate”.
NAPUL’E’ MILLE CULURE Napoli ha una grande tradizione melodica di canzoni d’amore. Le nuove generazioni d’artisti se la portano dentro in un naturale mix di contaminazioni e stili. “E’ una tradizione storica che non so quanto futuro possa avere ai giorni nostri, mi ricorda un po’ l’imbarbarimento in generale dell’arte dopo la caduta dell’impero. Napoli è una città che una volta era una grande capitale culturale, nonostante le sue contraddizioni, e all’interno del Paese aveva sicuramente un ruolo diverso rispetto a quello che ha adesso”. Poi ha subito un processo di decadimento che l’ha progressivamente allontanata dal resto del Paese. “Diciamo che anche il sud in qualche modo ha subito questa cosa, penso alla Calabria, alla Sicilia e alla Puglia, a esempio, terre che in quella capitale culturale vedevano un riferimento. Adesso Napoli soffre questa mancanza, sente il bisogno di sentirsi di nuovo protagonista in una realtà che la schiaccia continuamente per fattori interni e esterni. Probabilmente contribuiscono molto di più i fattori interni ma anche quelli esterni hanno avuto il loro ruolo, altrimenti non ci troveremmo ancora con una questione meridionale iper aperta a tanti anni dall’unità d’Italia”.
NOTE CHE DENUNCIANO Perché musica di denuncia? “Non so, io l’ho sempre vista in questa direzione. La prima volta che sono salito su un palco avevo 15 anni, e il palco era quello di Officina 99. Sono un bambino di strada cresciuto in mezzo alle posse e questa storia della musica a me ha dato tantissimo, perché ero partito proprio in un’altra direzione. La musica invece mi ha avvicinato a cose diverse rispetto a quelle che coinvolgevano tutti i miei amici, che erano i concerti della strada dove stavo. Tempo fa, durante una intervista alla Bbc, a Londra, ho scoperto che ci sono radio private che prendono finanziamenti dal governo per organizzare eventi sociali, trasmissioni radiofoniche con argomenti culturali, ma c’è pure chi ha allestito uno studio all’interno della radio dove invitano i ragazzi delle periferie e insegnano a usare programmi software. È un modo intelligente per toglierli dalla strada. Qui siamo lontani anni luce. Da noi questa cosa dell’educazione ai giovani non paga, perché non ha tempi elettorali. La politica? Lasciamo stare”.
E LA GUERRA CONTINUA Il futuro di Lucariello è scritto. “Sono in guerra – dice prima di salutarmi – e i miei progetti futuri sono quelli di continuare a rimanere in guerra”.
Tradotto in azioni, Lucariello non ha mai smesso di fare musica intrisa di impegno civile. Dopo Quiet ha realizzato altri due album, I nuovi Mille e CMNF8, creato progetti per i ragazzi delle periferie napoletane e l’anno scorso si è fatto sentire con il singolo Vittoria (in coppia con Fabri Fibra) e Miettece’ a faccia (sigla della serie tv “Sotto copertura”). Da quella sera al Centro di via Fontana Vecchia sono passati anni, ma la sostanza non cambia. Nuovi progetti arriveranno per continuare a combattere criminalità e ignoranza. Armati solo di musica e parole.
In guerra continua, armato di musica e parole
CATANZARO Una sera umida di fine ottobre 2008 me ne stavo tra le sale del Centro d’aggregazione giovanile per un appuntamento quasi imperdibile: Lucariello in concerto con il suo Cappotto di legno live e molti brani del suo primo album solista, Quiet. La sua perfomance era nel programma del primo (e finora unico) Festival dell’antropologia, che insieme a seminari e incontri offriva tre giorni di musica e spettacolo. La serata al Centro era a cura dalla Vivarium Upc di Riccardo Maria Mottola, quelli del Diagonal jazz, una delle più interessanti e originali manifestazioni musicali mai viste in Calabria dalla metà degli anni 90 in poi. Insomma, un nome una garanzia.
Prima di lui sul palco era salito Amiri Baraka, poeta, saggista, scrittore, critico musicale e drammaturgo, autore (soprattutto) di Blues People (ristampato in Italia da Shake edizioni), una specie di bibbia della cultura popolare afroamericana. Altrettanto imperdibile.
Lucariello
Lucariello, al secolo Luca Caiazzo, è un rapper napoletano molto noto tra gli amanti della scena italiana. Nel suo bagaglio l’esordio artistico con il Clan Vesuvio, una lunga e prolifica collaborazione con gli Almamegretta, tre album e tante altre cose da solista. Il brano Cappotto di legno lo portò alla ribalta delle cronache perché denunciava le minacce camorriste subite dallo scrittore Roberto Saviano. Erano i tempi in cui l’Italia si accorgeva di Gomorra e Scampia. Lucariello portava in giro già da un po’ le sue storie, e quella sera cantò accompagnato da Vince Carpentieri (alla chitarra), Domingo Colasuordo (batteria) e Davide Castronuovo (basso).
Alla fine del live passai un’oretta con lui in camerino per una chiacchierata-intervista che avevamo concordato prima dell’esibizione. Il pezzo doveva uscire su un noto quotidiano on line della mia città con il quale collaboravo, invece è rimasto chiuso nella mia personale miscellanea perché quel giornale ritardava la già misera paga e perciò decisi di interrompere il rapporto proprio in quei giorni.
Rieccolo qua, inedito e ancora profondamente attuale nonostante gli otto anni di distanza. Per dar voce al pensiero di un artista nato fra le strade più difficili di una delle metropoli più difficili del mondo, e che continua il suo prolifico e originale percorso ai margini del mainstream, ispirato da un profondo impegno civile, tanta consapevolezza e altrettanto coraggio.
SIAMO IN GUERRA Il live è finito da pochi minuti fra gli applausi miei e di un centinaio scarso di illuminati concittadini. In una stanza del Centro d’aggregazione giovanile adibita a camerino, Lucariello rifiata con una bottiglietta d’acqua in mano e ricambia i complimenti con larghi sorrisi. È più una chiacchierata che un’intervista e prende subito connotati amichevoli. Gomorra è sulla bocca di tutti. Non appena tocchiamo il discorso il rapper diventa un fiume in piena. “Quando nel resto d’Italia si parla della Calabria, ma anche di Napoli o del sud più in generale, purtroppo al di fuori delle belle coste e del mare, se ne parla come di qualcosa di infernale. Ma stasera qui ho visto una Calabria viva, vera, giovane e non, ho sentito molte più orecchie di quanto ne ho di solito anche se magari c’erano poche persone. C’è voglia di uscire da questo tunnel, siamo in guerra e ce ne stiamo rendendo conto e forse questo è quello che ha fatto nascere un movimento attorno alla vicenda di Roberto Saviano”. Non c’è solo gioventù illuminata e consapevole, purtroppo, anzi sono numerosi i ragazzi che cedono al “fascino” della malavita organizzata e ne riconoscono il ruolo. “In realtà il discorso è molto più semplice di quello che vogliono far passare i media, secondo me. Quando dico siamo in guerra dico che c’è un posto che in qualche modo è occupato dai nemici. I nemici hanno la loro propaganda di regime, quindi chi vive in quel posto non ha la possibilità ne la libertà di poter pensare una cosa diversa. Se vivi in certi posti non puoi parlare male dei casalesi, a esempio… ”.
TUTTI SAPEVAMO Poi è arrivato Roberto Saviano. “Lui ha detto quello che tutti già sapevano, meccanismi già conosciuti portati fuori attraverso un libro e a seguire dai media stessi. Ci siamo incontrati quasi naturalmente, anche perché io stavo un po’ facendo il suo stesso percorso dal punto di vista musicale e la collaborazione è iniziata dopo una sua mail. Viveva su un’isola, sotto scorta, ed era la maniera più sicura per comunicare. Mi disse che le mie canzoni gli tenevano compagnia, e aggiunse che se fosse stato un rapper avrebbe scritto un pezzo sulla sua condizione di vita. Da qui poi è nato Cappotto di legno e la voglia di fare delle cose insieme. Quel giorno dentro di me si è sbloccato qualcosa, e da allora faccio di tutto perchè questa condizione venga comunicata all’esterno. Siamo in guerra, ho scelto da che parte stare e combatto. Se questo deve costarmi la morte sono pronto, ma lo faccio per la mia gente e per tutti i miei fratelli costretti a scappare, per i miei figli che ancora non sono nati. Voglio lasciare questo? Penso di no. Non ho armi, non ho alcun fucile, ma sono altrettanto convinto di non voler lasciare la mia terra nelle mani sbagliate”.
NAPUL’E’ MILLE CULURE Napoli ha una grande tradizione melodica di canzoni d’amore. Le nuove generazioni d’artisti se la portano dentro in un naturale mix di contaminazioni e stili. “E’ una tradizione storica che non so quanto futuro possa avere ai giorni nostri, mi ricorda un po’ l’imbarbarimento in generale dell’arte dopo la caduta dell’impero. Napoli è una città che una volta era una grande capitale culturale, nonostante le sue contraddizioni, e all’interno del Paese aveva sicuramente un ruolo diverso rispetto a quello che ha adesso”. Poi ha subito un processo di decadimento che l’ha progressivamente allontanata dal resto del Paese. “Diciamo che anche il sud in qualche modo ha subito questa cosa, penso alla Calabria, alla Sicilia e alla Puglia, a esempio, terre che in quella capitale culturale vedevano un riferimento. Adesso Napoli soffre questa mancanza, sente il bisogno di sentirsi di nuovo protagonista in una realtà che la schiaccia continuamente per fattori interni e esterni. Probabilmente contribuiscono molto di più i fattori interni ma anche quelli esterni hanno avuto il loro ruolo, altrimenti non ci troveremmo ancora con una questione meridionale iper aperta a tanti anni dall’unità d’Italia”.
NOTE CHE DENUNCIANO Perché musica di denuncia? “Non so, io l’ho sempre vista in questa direzione. La prima volta che sono salito su un palco avevo 15 anni, e il palco era quello di Officina 99. Sono un bambino di strada cresciuto in mezzo alle posse e questa storia della musica a me ha dato tantissimo, perché ero partito proprio in un’altra direzione. La musica invece mi ha avvicinato a cose diverse rispetto a quelle che coinvolgevano tutti i miei amici, che erano i concerti della strada dove stavo. Tempo fa, durante una intervista alla Bbc, a Londra, ho scoperto che ci sono radio private che prendono finanziamenti dal governo per organizzare eventi sociali, trasmissioni radiofoniche con argomenti culturali, ma c’è pure chi ha allestito uno studio all’interno della radio dove invitano i ragazzi delle periferie e insegnano a usare programmi software. È un modo intelligente per toglierli dalla strada. Qui siamo lontani anni luce. Da noi questa cosa dell’educazione ai giovani non paga, perché non ha tempi elettorali. La politica? Lasciamo stare”.
E LA GUERRA CONTINUA Il futuro di Lucariello è scritto. “Sono in guerra – dice prima di salutarmi – e i miei progetti futuri sono quelli di continuare a rimanere in guerra”.
Tradotto in azioni, Lucariello non ha mai smesso di fare musica intrisa di impegno civile. Dopo Quiet ha realizzato altri due album, I nuovi Mille e CMNF8, creato progetti per i ragazzi delle periferie napoletane e l’anno scorso si è fatto sentire con il singolo Vittoria (in coppia con Fabri Fibra) e Miettece’ a faccia (sigla della serie tv “Sotto copertura”). Da quella sera al Centro di via Fontana Vecchia sono passati anni, ma la sostanza non cambia. Nuovi progetti arriveranno per continuare a combattere criminalità e ignoranza. Armati solo di musica e parole.
NESSUN COMMENTO