Partiamo dall’inizio. Cioè al film di apertura della Festa del Cinema di Roma. Prima di valutare l’impianto generale della “macchina” festivaliera capitolina usurata da un decennio di eterne (bellezze) promesse, dobbiamo riconoscere – a dispetto degli altri anni – l’ampiezza e l’importanza della tematica rappresentata da questo film.
Truth è ispirato al libro “Truth and Duty: The Press, the President and the Privilege of Power”, scritto da Mary Mapes (qui Cate Blanchett) giornalista e produttrice televisiva – per anni al fianco del noto anchorman Dan Rather (Robert Redford) – della trasmissione CBS “60 minutes”.
E’ Loro il reportage che portò alla luce le torture nel carcere di Abu Grahib. Nel settembre 2004 – a due mesi dalle elezioni presidenziali – provarono a portare alla luce il passato sullo stato di servizio di George W. Bush nella Guardia Nazionale del Texas svelandone ulteriormente “l’assenza fisica” e di come il presidente americano abbia prestato servizio dal 1968 al 1974 come pilota con l’intento di sfuggire all’invio in Vietnam. Ma una volta trasmesso lo scoop, il 9 settembre 2004, il web cominciò ad avanzare dubbi sull’autenticità dei documenti presentati: valutandoli come formato Word e con caratteri non presenti nelle macchine da scrivere degli anni ’70. Inizia un “processo” accanito verso i redattori per non essere stati in grado di appurare le fonti che avevano fornito i documenti. I giornalisti di “60 minutes” lottarono a lungo per dimostrare il contrario e soprattutto subirono il lento abbandono di diversi testimoni. Il film dell’esordiente James Vanderbilt fa del Rathergate il cardine del passaggio dai media tradizionali a internet, compreso il suo controverso rapporto col profitto figlio prediletto della concentrazione di potere nei network americani, campioni di una “libertà” capace di palesi legami con i vari governi e di una discriminazione di genere e di idee politiche.
Assieme alla forza della Blanchett e di Redford il regista crea un cast assoluto formato da Stacy Keach, Dennis Quaid, Topher Grace ed Elisabeth Moss – protagonista della serie tv Mad Men – nel ruolo dei ricercatori che lavorano assieme alla Mapes. Chiunque abbia amato la New Hollywood non può non amare anche i film che raccontano del mestiere del reporter, delle sue passioni, della sua etica e della sua rilevanza nella società, ma il giornalismo d’inchiesta americano – narrato epicamente in Tutti gli uomini del Presidente – così com’era fino a pochi anni fa sia stato stravolto completamente, oltre che dal trentennio neoliberista, dalla contemporaneità di flusso diretta e senza controlli della Rete. Alla fine dello scandalo mediatico la Mapes, dopo 15 anni di lavoro, fu licenziata dalla CBS, mentre Dan Rather mostro sacro del giornalismo si ritirò “spontaneamente”.
Il pensiero del regista è chiaro è su come bisogna comunque continuare a fare domande a chi è al potere, restituendo anche il senso di fatica delle domande che ci sono dietro all’incessante ricerca della verità che assieme a l’aspetto umano diviene protagonista di un finale che pur con una punta retorica ci ricorda come la “verità” mutevole e indefinita – trovandosi relativizzata secondo gerarchie – vada conquistata di continuo.
Il film ci porta tra le righe del giornalismo mediatico, senza nessun giudizio però sul governo Bush e sulla guerra. Il suo obiettivo principale è stato quello di raccontare la storia di una donna che, all’apice della carriera, ha perso il lavoro perché andava alla ricerca della verità. Un’idea liberal del giornalismo non slegato dalla morale e dalla sua ricerca. Come la frase che ha accompagnato Dan Rather alla fine di ogni programma, “Coraggio”.
Dal corrispondente Marco Guarella
Festa del cinema di Roma. Il “coraggio” di Dan Rather ispira Truth
Partiamo dall’inizio. Cioè al film di apertura della Festa del Cinema di Roma. Prima di valutare l’impianto generale della “macchina” festivaliera capitolina usurata da un decennio di eterne (bellezze) promesse, dobbiamo riconoscere – a dispetto degli altri anni – l’ampiezza e l’importanza della tematica rappresentata da questo film.
Truth è ispirato al libro “Truth and Duty: The Press, the President and the Privilege of Power”, scritto da Mary Mapes (qui Cate Blanchett) giornalista e produttrice televisiva – per anni al fianco del noto anchorman Dan Rather (Robert Redford) – della trasmissione CBS “60 minutes”.
E’ Loro il reportage che portò alla luce le torture nel carcere di Abu Grahib. Nel settembre 2004 – a due mesi dalle elezioni presidenziali – provarono a portare alla luce il passato sullo stato di servizio di George W. Bush nella Guardia Nazionale del Texas svelandone ulteriormente “l’assenza fisica” e di come il presidente americano abbia prestato servizio dal 1968 al 1974 come pilota con l’intento di sfuggire all’invio in Vietnam. Ma una volta trasmesso lo scoop, il 9 settembre 2004, il web cominciò ad avanzare dubbi sull’autenticità dei documenti presentati: valutandoli come formato Word e con caratteri non presenti nelle macchine da scrivere degli anni ’70. Inizia un “processo” accanito verso i redattori per non essere stati in grado di appurare le fonti che avevano fornito i documenti. I giornalisti di “60 minutes” lottarono a lungo per dimostrare il contrario e soprattutto subirono il lento abbandono di diversi testimoni. Il film dell’esordiente James Vanderbilt fa del Rathergate il cardine del passaggio dai media tradizionali a internet, compreso il suo controverso rapporto col profitto figlio prediletto della concentrazione di potere nei network americani, campioni di una “libertà” capace di palesi legami con i vari governi e di una discriminazione di genere e di idee politiche.
Assieme alla forza della Blanchett e di Redford il regista crea un cast assoluto formato da Stacy Keach, Dennis Quaid, Topher Grace ed Elisabeth Moss – protagonista della serie tv Mad Men – nel ruolo dei ricercatori che lavorano assieme alla Mapes. Chiunque abbia amato la New Hollywood non può non amare anche i film che raccontano del mestiere del reporter, delle sue passioni, della sua etica e della sua rilevanza nella società, ma il giornalismo d’inchiesta americano – narrato epicamente in Tutti gli uomini del Presidente – così com’era fino a pochi anni fa sia stato stravolto completamente, oltre che dal trentennio neoliberista, dalla contemporaneità di flusso diretta e senza controlli della Rete. Alla fine dello scandalo mediatico la Mapes, dopo 15 anni di lavoro, fu licenziata dalla CBS, mentre Dan Rather mostro sacro del giornalismo si ritirò “spontaneamente”.
Il pensiero del regista è chiaro è su come bisogna comunque continuare a fare domande a chi è al potere, restituendo anche il senso di fatica delle domande che ci sono dietro all’incessante ricerca della verità che assieme a l’aspetto umano diviene protagonista di un finale che pur con una punta retorica ci ricorda come la “verità” mutevole e indefinita – trovandosi relativizzata secondo gerarchie – vada conquistata di continuo.
Il film ci porta tra le righe del giornalismo mediatico, senza nessun giudizio però sul governo Bush e sulla guerra. Il suo obiettivo principale è stato quello di raccontare la storia di una donna che, all’apice della carriera, ha perso il lavoro perché andava alla ricerca della verità. Un’idea liberal del giornalismo non slegato dalla morale e dalla sua ricerca. Come la frase che ha accompagnato Dan Rather alla fine di ogni programma, “Coraggio”.
Dal corrispondente Marco Guarella
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