Calabria. Sette dirigenti della famosa fabbrica tessile di Praia a Mare erano accusati di disastro ambientale, omicidio colposo plurimo e lesioni. Tra gli imputati principali il conte Marzotto. La difesa annuncia il ricorso in Appello
«Il fatto non sussiste». Nessuno è colpevole della lenta carneficina che sarebbe avvenuta nella fabbrica tessile Marlane di Praia, in provincia di Cosenza. Non esiste un nesso di causa ed effetto tra le sostanze tossiche inalate e le decine di tumori contratti dai 107 operai che all’interno della fabbrica hanno lavorato per anni. Non ci sono responsabilità tra quanti avrebbero dovuto vigilare e garantire minime condizioni di sicurezza.
A stabilirlo, dopo un lungo e tormentato dibattimento e una camera di consiglio protrattasi fino a tarda sera, è stato il tribunale di Paola che ieri ha assolto tutti gli imputati, tra cui il dirigente di fabbrica nonché già sindaco di Praia a Mare, Carlo Lomonaco. Assolto anche il padrone dell’azienda, il Conte Pietro Marzotto.
Cadono dunque nel vuoto le denunce dei comitati ambientalisti del Tirreno cosentino e dei familiari delle vittime, a lungo ignorati dalle istituzioni preposte al controllo del territorio e dai sindacati confederali. Il processo di primo grado non ha accolto le richieste della pubblica accusa che aveva richiesto pene pesanti per 7 dirigenti e per il titolare della fabbrica, imputati a vario titolo dei reati di disastro ambientale, omicidio colposo plurimo e lesioni gravissime.
Lacrime di rabbia, urla di indignazione hanno attraversato le strade di Paola subito dopo la lettura della sentenza.
Lunga e travagliata è stata la vicenda Marlane. Durante tutto il processo, un presidio permanente ha stazionato nei pressi del tribunale, denunciando a gran voce il rischio che un’eventuale prescrizione ponesse gli imputati al riparo da possibili condanne. La sentenza di ieri suona come un’ulteriore beffa per quanti hanno perso la vita, la salute, gli affetti.
Un anno fa Eni-Marzotto aveva raggiunto un accordo con i familiari degli operai deceduti, ottenendo la revoca delle costituzioni di parti civili. Circa sette milioni di euro sarebbero stati versati complessivamente ai congiunti delle vittime ed ai loro avvocati. Ciascuna parte civile ha ricevuto una somma oscillante tra le 20mila e le 30mila euro. Se sull’entità del risarcimento si raggiunse un accordo, invece in merito alle responsabilità penali ovviamente il procedimento è andato avanti, fino al verdetto di ieri. Per conoscere nel dettaglio le motivazioni che hanno spinto la corte ad assolvere gli imputati, bisognerà attendere il deposito della sentenza. Nella requisitoria della pubblica accusa, l’arco delle responsabilità si presentava ampio. A provocare danni irreversibili alla salute umana ed all’ambiente, secondo il pm, sarebbe stato l’uso di coloranti azoici nella fase di produzione. E, ancora, l’amianto presente sui freni dei telai. Infine, da non sottovalutare la questione del presunto sversamento delle diverse tonnellate di rifiuti industriali mai smaltite, che a parere della pubblica accusa sarebbero state seppellite impunemente nella zona circostante, a poche decine di metri dal centro abitato e da uno dei tratti balneari più rinomati della costa tirrenica calabrese, di fronte alla meravigliosa isola di Dino.
La sentenza di ieri rappresenta una profonda delusione per operai coraggiosissimi come Luigi Pacchiano ed Alberto Cunto, ma soprattutto per gli attivisti della costa tirrenica cosentina. Anzitutto lo scrittore Francesco Cirillo che a questa vicenda ha dedicato accurate controinchieste, sfidando il clima di ostilità che si scatena ogni qual volta qualcuno denunci l’impatto devastante dell’industrializzazione nel sud Italia e in altre regioni del Paese. Vanificato anche il ruolo della procura di Paola.
Negli uffici diretti dal procuratore Bruno Giordano, a partire dalla seconda metà del decennio scorso, sono state avviate inchieste giudiziarie importanti su reati ambientali di enorme gravità, come quelle sulle navi dei veleni, la cementificazione dei corsi d’acqua, il mancato smaltimento dei fanghi da depurazione, l’inquinamento di un mare che di fatto oggi non è più balneabile per decine di chilometri.
di Claudio Dionesalvi
Pubblicato sul Manifesto, il 19 dicembre 2014
Caso Marlane. Centosette morti, ma «il fatto non sussiste»
Calabria. Sette dirigenti della famosa fabbrica tessile di Praia a Mare erano accusati di disastro ambientale, omicidio colposo plurimo e lesioni. Tra gli imputati principali il conte Marzotto. La difesa annuncia il ricorso in Appello
«Il fatto non sussiste». Nessuno è colpevole della lenta carneficina che sarebbe avvenuta nella fabbrica tessile Marlane di Praia, in provincia di Cosenza. Non esiste un nesso di causa ed effetto tra le sostanze tossiche inalate e le decine di tumori contratti dai 107 operai che all’interno della fabbrica hanno lavorato per anni. Non ci sono responsabilità tra quanti avrebbero dovuto vigilare e garantire minime condizioni di sicurezza.
A stabilirlo, dopo un lungo e tormentato dibattimento e una camera di consiglio protrattasi fino a tarda sera, è stato il tribunale di Paola che ieri ha assolto tutti gli imputati, tra cui il dirigente di fabbrica nonché già sindaco di Praia a Mare, Carlo Lomonaco. Assolto anche il padrone dell’azienda, il Conte Pietro Marzotto.
Cadono dunque nel vuoto le denunce dei comitati ambientalisti del Tirreno cosentino e dei familiari delle vittime, a lungo ignorati dalle istituzioni preposte al controllo del territorio e dai sindacati confederali. Il processo di primo grado non ha accolto le richieste della pubblica accusa che aveva richiesto pene pesanti per 7 dirigenti e per il titolare della fabbrica, imputati a vario titolo dei reati di disastro ambientale, omicidio colposo plurimo e lesioni gravissime.
Lacrime di rabbia, urla di indignazione hanno attraversato le strade di Paola subito dopo la lettura della sentenza.
Lunga e travagliata è stata la vicenda Marlane. Durante tutto il processo, un presidio permanente ha stazionato nei pressi del tribunale, denunciando a gran voce il rischio che un’eventuale prescrizione ponesse gli imputati al riparo da possibili condanne. La sentenza di ieri suona come un’ulteriore beffa per quanti hanno perso la vita, la salute, gli affetti.
Un anno fa Eni-Marzotto aveva raggiunto un accordo con i familiari degli operai deceduti, ottenendo la revoca delle costituzioni di parti civili. Circa sette milioni di euro sarebbero stati versati complessivamente ai congiunti delle vittime ed ai loro avvocati. Ciascuna parte civile ha ricevuto una somma oscillante tra le 20mila e le 30mila euro. Se sull’entità del risarcimento si raggiunse un accordo, invece in merito alle responsabilità penali ovviamente il procedimento è andato avanti, fino al verdetto di ieri. Per conoscere nel dettaglio le motivazioni che hanno spinto la corte ad assolvere gli imputati, bisognerà attendere il deposito della sentenza. Nella requisitoria della pubblica accusa, l’arco delle responsabilità si presentava ampio. A provocare danni irreversibili alla salute umana ed all’ambiente, secondo il pm, sarebbe stato l’uso di coloranti azoici nella fase di produzione. E, ancora, l’amianto presente sui freni dei telai. Infine, da non sottovalutare la questione del presunto sversamento delle diverse tonnellate di rifiuti industriali mai smaltite, che a parere della pubblica accusa sarebbero state seppellite impunemente nella zona circostante, a poche decine di metri dal centro abitato e da uno dei tratti balneari più rinomati della costa tirrenica calabrese, di fronte alla meravigliosa isola di Dino.
La sentenza di ieri rappresenta una profonda delusione per operai coraggiosissimi come Luigi Pacchiano ed Alberto Cunto, ma soprattutto per gli attivisti della costa tirrenica cosentina. Anzitutto lo scrittore Francesco Cirillo che a questa vicenda ha dedicato accurate controinchieste, sfidando il clima di ostilità che si scatena ogni qual volta qualcuno denunci l’impatto devastante dell’industrializzazione nel sud Italia e in altre regioni del Paese. Vanificato anche il ruolo della procura di Paola.
Negli uffici diretti dal procuratore Bruno Giordano, a partire dalla seconda metà del decennio scorso, sono state avviate inchieste giudiziarie importanti su reati ambientali di enorme gravità, come quelle sulle navi dei veleni, la cementificazione dei corsi d’acqua, il mancato smaltimento dei fanghi da depurazione, l’inquinamento di un mare che di fatto oggi non è più balneabile per decine di chilometri.
di Claudio Dionesalvi
Pubblicato sul Manifesto, il 19 dicembre 2014
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