Gli scrittori del collettivo letterario “Lou Palanca” non solo sono stati in grado di squarciare un velo di silenzio, spesso ben quarantasette anni, su quello che è stato il primo omicidio a Catanzaro nel dopoguerra, (omicidio tra l’altro di una delle personalità politiche piu’ in vista dell’epoca trattandosi di quello che ebbe per vittima un alto funzionario del Pci locale nonché presidente regionale dell’Alleanza dei contadini); ma per avere restituito a tutti noi catanzaresi e non solo le immagini di una città cambiata irrimediabilmente, e che non rivedremo mai piu’.
La copertina di “Blocco 52”, il libro scritto dal collettivo letterario Lou Palanca
Sulla copertina del libro, il sottotitolo reca la scritta “Una storia scomparsa, una città perduta”, difficilmente una definizione cosi’ sintetica potrebbe essere piu’ esaustiva.
Bisogna infatti dare atto ai novelli scrittori del collettivo letterario “Lou Palanca” di aver fatto davvero un lavoro magistrale. Gli scrittori, non solo sono stati in grado di squarciare un velo di silenzio, spesso ben quarantasette anni, su quello che è stato il primo omicidio a Catanzaro nel dopoguerra, (omicidio tra l’altro di una delle personalità politiche piu’ in vista dell’epoca trattandosi di quello che ebbe per vittima un alto funzionario del Pci locale nonché presidente regionale dell’Alleanza dei contadini); ma per avere restituito a tutti noi catanzaresi e non solo le immagini di una città cambiata irrimediabilmente, e che non rivedremo mai piu’.
Attraverso la cronaca romanzata di un omicidio avvenuto nei vicoli del centro storico, tuttora irrisolto, di cui resta un fascicolo giudiziario desolatamente vuoto, l’obiettivo si sposta senza soluzione di continuità su una serie di microcosmi resi piu’ piacevoli e scorrevoli agli occhi del lettore attraverso l’espediente narrativo, (mutuato dai loro principali ispiratori del collettivo Wu Ming e prima ancora Luther Blisset) di una sovrapposizione di voci narranti che affrontano la vicenda a trecentosessanta gradi includendo tutti i punti di vista possibili sulla vicenda a dispetto sia del tempo che dello spazio. Chi avrà il piacere di leggere “Blocco 52”, non solo resterà col fiato sospeso fino alla fine cercando di immaginare quale potrebbe essere il vero esecutore ed i reali mandanti di quest’omicidio dalle molteplici piste: dal movente politico “interno” a quello “esterno” passando per varie ipotesi passionali e familiari; ma si ritroverà a fare i conti con degli affreschi del nostro passato. E’ quasi impossibile, infatti, per chi come il sottoscritto ha passato la sua infanzia a girovagare nei vicoli e nei quartieri del centro storico, non sentire uscire dalle pagine di quel romanzo, gli odori del capretto “ala tijana” e del morzello, emblemi di una catanzaresità che proprio nella cucina ha sempre trovato una delle sue maggiori affermazioni di identità, scarseggianti in quasi tutti gli altri contesti.
Non mancano infatti i riferimenti, (soprattutto da parte del personaggio del giovane comunista sardo Gavino Piras, mandato dalla Federazione in Calabria per “farsi le ossa” e formarsi come futuro quadro di partito), ai catanzaresi e alle loro radici miste, frutto di secoli e secoli di dominazioni straniere, attraverso delle acute analisi antropologiche, sottolineandone quel mix tra rassegnazione e ribellismo sempre presente tra la nostra gente, ma che allora doveva essere davvero una miscela esplosiva, per via del clima incandescente, tipico dei momenti di trapasso tra un’epoca e l’altra. E’ proprio quello, la metà degli anni Sessanta, un momento di passaggio di consegne tra due epoche che hanno ridefinito profondità l’aspetto della città e con esso qualche caratteristica degli abitanti. Non mancano i riferimenti alle aspettative della cittadinanza per quelle opere (come ad esempio la realizzazione della Galleria del Sansinato, o l’edificazione di nuovi quartieri residenziali ex novo) che avrebbero dovuto trasportare Catanzaro nella modernità. Tuttavia con una sottile ironia condita con del sarcasmo, i personaggi ambientati nei giorni nostri rilevano che in fin dai conti dal baratto tra la propria identità ed una vaga idea di progresso, Catanzaro non ci abbia guadagnato poi molto. Proprio il progresso è rimasto sopra la testa della stragrande maggioranza dei cittadini, beffardo nel farsi vedere ed inseguire, portando benessere solo ad un minima parte della cittadinanza, perché piuttosto che scendere in mezzo agli strati piu’ popolari era troppo impegnato a camminargli sopra, banchettando per tutti questi anni insieme a quella ristretta èlite che tiene in scacco un intero corpo sociale. Appare quindi calzante a pennello quell’immagine consegnataci da una descrizione tanto puntuale quanto amara ad opera del personaggio Vincenzo Dattilo ( alter ego dello storico reggino Fabio Cuzzola, unico non catanzarese tra gli autori), che mentre si prodigava nella ricerca di informazioni su questo mistero dimenticato, constatava come proprio per la sua conformazione morfologica, la nostra sembri quasi una città avvitata su sé stessa e sui suoi colli, poco incline agli sguardi indiscreti e che non accetta intromissioni ed interferenza nel suo adoperare gattopardesco condito di malaffare, clientelismo ed assenza di prospettive per i suoi figli.
Nonostante una sempre piu’ spasmodica attesa per cio’ che sarebbe dovuto essere (e che alla fine non fu) c’erano pur sempre delle garanzie da salvaguardare, dei braccianti da difendere dalle prepotenze dei latifondisti e dei loro sgherri, dei manovali da istruire su quali fossero le loro reali condizioni ed i loro diritti in modo di dotarli di una coscienza politica, emancipandoli tanto dalla povertà materiale quanto da quella intellettuale per credere insieme in quel cambiamento che non sarebbe mai avvenuto per gentile concessione dall’alto. E’ proprio in questo solco che s’innesta la parte piu’ corposa del romanzo: sebbene esso tratti della morte di Luigi Silipo, quello che colpisce di piu’, quello che a mio modesto parere era l’obiettivo degli scrittori era porre l’accento sulla sua stessa vita, una vita dedita a quella causa, la sua causa, come quella di tantissimi altri, che l’ha posto perennemente su un piano di alterità rispetto alla convenzionale ed alienante routine catanzarese. E’ a dir poco affascinante il ritratto che esalta la figura di un dirigente comunista celibe in una cittadina provinciale e bigotta come poche altre, che nonostante il suo ruolo ed il suo rango non lesinava tempo ad interessarsi delle attività piu’ popolari come lo sport: la pallacanestro ed il calcio, quella “Catanzarese” di Gianni Bui, vero amore della città e collante tra le varie anime della popolazione catanzarese. Così come non mancano certo quei momenti di intimità e dolcezza del quotidiano, tra un amore clandestino e la scomoda amicizia disinteressata con una prostituta con cui discorreva tanto sugli affari cittadini che sulla situazione mondiale attraverso le categorie marxistiche.
È proprio il lato emotivo di Silipo e dei suoi compagni ad uscire con forza e preponderanza da questo romanzo, il non essere come gli altri, il non pensare, il non comportarsi e persino il non amare come gli altri, riuscendo a trasformare anche una storia d’amore tra Piras ed una maestrina in orbita PSI, un momento di confronto politico tra il serio ed il faceto.
Cio’ avveniva anche d’innanzi a prove ardue e questioni spinose, a partire da quelle del tutto interne alla loro casa comune: una lotta intestina in seno al partito che, da poco orfano di Togliatti e screditato dai “fatti d’Ungheria” del’56, era attraversato dalle correnti, dalle scomuniche ed anche dai colpi bassi, che avrebbero colpito anche il nostro protagonista “reo” di avere origini borghesi, cosa inaccettabile per i vecchi quadri formatisi in epoche piu’ chiuse. Proprio la psicologia interna ai quadri del vecchio Pci offre degli importanti spunti di riflessione, che inevitabilmente hanno attanagliato la mente e la coscienza di chi, anche per un limitato tratto della propria vita abbia intrapreso delle scelte di vita analoghe a quelle dei protagonisti di questo romanzo. Mi riferisco a quella dicotomia tra il realismo pragmatico imposto a Silipo dal suo ruolo di dirigente comunista che gli consigliava moderazione ed attendismo, perché consapevole di essere un semplice soldato di un esercito ben piu’ vasto che era pronto a sfidare lo status quo per affrancare gli oppressi, ed in cui ogni passo falso o fuga in avanti sarebbe potuta rivelarsi controproducente. D’altro canto questa razionalità si doveva confrontare col cuore di un vero comunista, pronto a scaldarsi ed indignarsi d’innanzi alle ingiustizie e prevaricazioni quotidiane che si riproducevano giorno dopo giorno nelle fabbriche e nei campi e che spingevano spesso e volentieri Silipo a dei durissimi faccia a faccia coi vecchi nobili attaccati alle ultime vestigia di un potere che stava lentamente cambiando detentore ed i loro lacchè a costo anche di subire minacce di morte, che poi si sono tragicamente tramutate in realtà ( il dialogo tra Silipo ed il Barone Martorana è splendido, quasi un manifesto sulla fine del potere feudale ).
Leggendo questo libro non puo’ venire in mente un impietoso paragone tra un partito che pur attraverso i suoi molteplici limiti (gli echi lunghi di Budapest stentava a placarsi e già si andava delineando quello che sarebbe successo a Praga nel 1968 attraverso la voce di “Nina” una dirigente del partito informatrice del partito e finita fagocitata dal manicheismo di un partito in perenne tensione tanto all’esterno quanto all’interno) rappresentava un’organizzazione di massa, dove per ogni burocrate grigio compassato ed attendista, c’erano almeno cento militanti pronti a gettare il cuore all’ostacolo, a credere nella rivoluzione e decisa ad anteporre l’interesse delle masse oppresse al loro, e i partiti liquidi di oggi, principalmente i suoi discendenti diretti, che svolgono piu’ che altro la funzione di comitato elettorale con una ripartizione tra interessi collettivi e comuni ben diversa.
Sebbene sia giusto condannare il fenomeno dell’antipolitica, perché a lungo andare non puo’ non rivelarsi altro che un boomerang che torna indietro e finisce per avvantaggiare quelli che, in teoria, sarebbero i bersagli da colpire; non si puo’ fare a meno di notare che la crisi di valori che è sorta proprio alla fine di quel mondo che non c’è piu’ vada combattuta con efficacia. A partire proprio dallo scardinare quel concetto del “tanto sono tutti uguali” cavallo da battaglia del qualunquismo dei giorni nostri che ha fatto da battistrada al riemergere del nostro lato peggiore, quello della ricerca di un uomo della provvidenza e del disprezzo del diverso o di chi comunque non rientra in tutti quegli asfissianti ingranaggi imposti dalla società contemporanea. Proprio recuperando queste tante storie sommerse di persone semplici ed umili, si puo’ riscoprire un’origine in cui non si era tutti uguali e le differenze pesavano, eccome!
In ultima istanza questi, insieme a tanti altri motivi e spunti di riflessione, basterebbero di per sé a consigliare la lettura di un romanzo che non solo ha il merito di fare luce su una delle tante storie oscure della nostra terra, di cui quasi nessuno ha sentito l’esigenza di occuparsene per quasi cinquant’anni, quasi come se fosse meglio dimenticare. “Blocco 52” è riuscito a restituire uno scorcio di un’ altra Catanzaro, radicalmente diversa dal cumulo di case ed auto guidate da gente perennemente di fretta e con una situazione di ingovernabilita’ tanto sociale quanto politica che ormai appare quasi atavica. E’ proprio da piccole storie come queste che si puo’ combattere per la memoria e per restituire qualche cosa di cui essere fieri ad una città che di questi tempi sembra averne disperatamente bisogno.
“Blocco 52” … Una storia catanzarese
Gli scrittori del collettivo letterario “Lou Palanca” non solo sono stati in grado di squarciare un velo di silenzio, spesso ben quarantasette anni, su quello che è stato il primo omicidio a Catanzaro nel dopoguerra, (omicidio tra l’altro di una delle personalità politiche piu’ in vista dell’epoca trattandosi di quello che ebbe per vittima un alto funzionario del Pci locale nonché presidente regionale dell’Alleanza dei contadini); ma per avere restituito a tutti noi catanzaresi e non solo le immagini di una città cambiata irrimediabilmente, e che non rivedremo mai piu’.
La copertina di “Blocco 52”, il libro scritto dal collettivo letterario Lou Palanca
Sulla copertina del libro, il sottotitolo reca la scritta “Una storia scomparsa, una città perduta”, difficilmente una definizione cosi’ sintetica potrebbe essere piu’ esaustiva.
Bisogna infatti dare atto ai novelli scrittori del collettivo letterario “Lou Palanca” di aver fatto davvero un lavoro magistrale. Gli scrittori, non solo sono stati in grado di squarciare un velo di silenzio, spesso ben quarantasette anni, su quello che è stato il primo omicidio a Catanzaro nel dopoguerra, (omicidio tra l’altro di una delle personalità politiche piu’ in vista dell’epoca trattandosi di quello che ebbe per vittima un alto funzionario del Pci locale nonché presidente regionale dell’Alleanza dei contadini); ma per avere restituito a tutti noi catanzaresi e non solo le immagini di una città cambiata irrimediabilmente, e che non rivedremo mai piu’.
Attraverso la cronaca romanzata di un omicidio avvenuto nei vicoli del centro storico, tuttora irrisolto, di cui resta un fascicolo giudiziario desolatamente vuoto, l’obiettivo si sposta senza soluzione di continuità su una serie di microcosmi resi piu’ piacevoli e scorrevoli agli occhi del lettore attraverso l’espediente narrativo, (mutuato dai loro principali ispiratori del collettivo Wu Ming e prima ancora Luther Blisset) di una sovrapposizione di voci narranti che affrontano la vicenda a trecentosessanta gradi includendo tutti i punti di vista possibili sulla vicenda a dispetto sia del tempo che dello spazio. Chi avrà il piacere di leggere “Blocco 52”, non solo resterà col fiato sospeso fino alla fine cercando di immaginare quale potrebbe essere il vero esecutore ed i reali mandanti di quest’omicidio dalle molteplici piste: dal movente politico “interno” a quello “esterno” passando per varie ipotesi passionali e familiari; ma si ritroverà a fare i conti con degli affreschi del nostro passato. E’ quasi impossibile, infatti, per chi come il sottoscritto ha passato la sua infanzia a girovagare nei vicoli e nei quartieri del centro storico, non sentire uscire dalle pagine di quel romanzo, gli odori del capretto “ala tijana” e del morzello, emblemi di una catanzaresità che proprio nella cucina ha sempre trovato una delle sue maggiori affermazioni di identità, scarseggianti in quasi tutti gli altri contesti.
Non mancano infatti i riferimenti, (soprattutto da parte del personaggio del giovane comunista sardo Gavino Piras, mandato dalla Federazione in Calabria per “farsi le ossa” e formarsi come futuro quadro di partito), ai catanzaresi e alle loro radici miste, frutto di secoli e secoli di dominazioni straniere, attraverso delle acute analisi antropologiche, sottolineandone quel mix tra rassegnazione e ribellismo sempre presente tra la nostra gente, ma che allora doveva essere davvero una miscela esplosiva, per via del clima incandescente, tipico dei momenti di trapasso tra un’epoca e l’altra. E’ proprio quello, la metà degli anni Sessanta, un momento di passaggio di consegne tra due epoche che hanno ridefinito profondità l’aspetto della città e con esso qualche caratteristica degli abitanti. Non mancano i riferimenti alle aspettative della cittadinanza per quelle opere (come ad esempio la realizzazione della Galleria del Sansinato, o l’edificazione di nuovi quartieri residenziali ex novo) che avrebbero dovuto trasportare Catanzaro nella modernità. Tuttavia con una sottile ironia condita con del sarcasmo, i personaggi ambientati nei giorni nostri rilevano che in fin dai conti dal baratto tra la propria identità ed una vaga idea di progresso, Catanzaro non ci abbia guadagnato poi molto. Proprio il progresso è rimasto sopra la testa della stragrande maggioranza dei cittadini, beffardo nel farsi vedere ed inseguire, portando benessere solo ad un minima parte della cittadinanza, perché piuttosto che scendere in mezzo agli strati piu’ popolari era troppo impegnato a camminargli sopra, banchettando per tutti questi anni insieme a quella ristretta èlite che tiene in scacco un intero corpo sociale. Appare quindi calzante a pennello quell’immagine consegnataci da una descrizione tanto puntuale quanto amara ad opera del personaggio Vincenzo Dattilo ( alter ego dello storico reggino Fabio Cuzzola, unico non catanzarese tra gli autori), che mentre si prodigava nella ricerca di informazioni su questo mistero dimenticato, constatava come proprio per la sua conformazione morfologica, la nostra sembri quasi una città avvitata su sé stessa e sui suoi colli, poco incline agli sguardi indiscreti e che non accetta intromissioni ed interferenza nel suo adoperare gattopardesco condito di malaffare, clientelismo ed assenza di prospettive per i suoi figli.
Nonostante una sempre piu’ spasmodica attesa per cio’ che sarebbe dovuto essere (e che alla fine non fu) c’erano pur sempre delle garanzie da salvaguardare, dei braccianti da difendere dalle prepotenze dei latifondisti e dei loro sgherri, dei manovali da istruire su quali fossero le loro reali condizioni ed i loro diritti in modo di dotarli di una coscienza politica, emancipandoli tanto dalla povertà materiale quanto da quella intellettuale per credere insieme in quel cambiamento che non sarebbe mai avvenuto per gentile concessione dall’alto. E’ proprio in questo solco che s’innesta la parte piu’ corposa del romanzo: sebbene esso tratti della morte di Luigi Silipo, quello che colpisce di piu’, quello che a mio modesto parere era l’obiettivo degli scrittori era porre l’accento sulla sua stessa vita, una vita dedita a quella causa, la sua causa, come quella di tantissimi altri, che l’ha posto perennemente su un piano di alterità rispetto alla convenzionale ed alienante routine catanzarese. E’ a dir poco affascinante il ritratto che esalta la figura di un dirigente comunista celibe in una cittadina provinciale e bigotta come poche altre, che nonostante il suo ruolo ed il suo rango non lesinava tempo ad interessarsi delle attività piu’ popolari come lo sport: la pallacanestro ed il calcio, quella “Catanzarese” di Gianni Bui, vero amore della città e collante tra le varie anime della popolazione catanzarese. Così come non mancano certo quei momenti di intimità e dolcezza del quotidiano, tra un amore clandestino e la scomoda amicizia disinteressata con una prostituta con cui discorreva tanto sugli affari cittadini che sulla situazione mondiale attraverso le categorie marxistiche.
È proprio il lato emotivo di Silipo e dei suoi compagni ad uscire con forza e preponderanza da questo romanzo, il non essere come gli altri, il non pensare, il non comportarsi e persino il non amare come gli altri, riuscendo a trasformare anche una storia d’amore tra Piras ed una maestrina in orbita PSI, un momento di confronto politico tra il serio ed il faceto.
Cio’ avveniva anche d’innanzi a prove ardue e questioni spinose, a partire da quelle del tutto interne alla loro casa comune: una lotta intestina in seno al partito che, da poco orfano di Togliatti e screditato dai “fatti d’Ungheria” del’56, era attraversato dalle correnti, dalle scomuniche ed anche dai colpi bassi, che avrebbero colpito anche il nostro protagonista “reo” di avere origini borghesi, cosa inaccettabile per i vecchi quadri formatisi in epoche piu’ chiuse. Proprio la psicologia interna ai quadri del vecchio Pci offre degli importanti spunti di riflessione, che inevitabilmente hanno attanagliato la mente e la coscienza di chi, anche per un limitato tratto della propria vita abbia intrapreso delle scelte di vita analoghe a quelle dei protagonisti di questo romanzo. Mi riferisco a quella dicotomia tra il realismo pragmatico imposto a Silipo dal suo ruolo di dirigente comunista che gli consigliava moderazione ed attendismo, perché consapevole di essere un semplice soldato di un esercito ben piu’ vasto che era pronto a sfidare lo status quo per affrancare gli oppressi, ed in cui ogni passo falso o fuga in avanti sarebbe potuta rivelarsi controproducente. D’altro canto questa razionalità si doveva confrontare col cuore di un vero comunista, pronto a scaldarsi ed indignarsi d’innanzi alle ingiustizie e prevaricazioni quotidiane che si riproducevano giorno dopo giorno nelle fabbriche e nei campi e che spingevano spesso e volentieri Silipo a dei durissimi faccia a faccia coi vecchi nobili attaccati alle ultime vestigia di un potere che stava lentamente cambiando detentore ed i loro lacchè a costo anche di subire minacce di morte, che poi si sono tragicamente tramutate in realtà ( il dialogo tra Silipo ed il Barone Martorana è splendido, quasi un manifesto sulla fine del potere feudale ).
Leggendo questo libro non puo’ venire in mente un impietoso paragone tra un partito che pur attraverso i suoi molteplici limiti (gli echi lunghi di Budapest stentava a placarsi e già si andava delineando quello che sarebbe successo a Praga nel 1968 attraverso la voce di “Nina” una dirigente del partito informatrice del partito e finita fagocitata dal manicheismo di un partito in perenne tensione tanto all’esterno quanto all’interno) rappresentava un’organizzazione di massa, dove per ogni burocrate grigio compassato ed attendista, c’erano almeno cento militanti pronti a gettare il cuore all’ostacolo, a credere nella rivoluzione e decisa ad anteporre l’interesse delle masse oppresse al loro, e i partiti liquidi di oggi, principalmente i suoi discendenti diretti, che svolgono piu’ che altro la funzione di comitato elettorale con una ripartizione tra interessi collettivi e comuni ben diversa.
Sebbene sia giusto condannare il fenomeno dell’antipolitica, perché a lungo andare non puo’ non rivelarsi altro che un boomerang che torna indietro e finisce per avvantaggiare quelli che, in teoria, sarebbero i bersagli da colpire; non si puo’ fare a meno di notare che la crisi di valori che è sorta proprio alla fine di quel mondo che non c’è piu’ vada combattuta con efficacia. A partire proprio dallo scardinare quel concetto del “tanto sono tutti uguali” cavallo da battaglia del qualunquismo dei giorni nostri che ha fatto da battistrada al riemergere del nostro lato peggiore, quello della ricerca di un uomo della provvidenza e del disprezzo del diverso o di chi comunque non rientra in tutti quegli asfissianti ingranaggi imposti dalla società contemporanea. Proprio recuperando queste tante storie sommerse di persone semplici ed umili, si puo’ riscoprire un’origine in cui non si era tutti uguali e le differenze pesavano, eccome!
In ultima istanza questi, insieme a tanti altri motivi e spunti di riflessione, basterebbero di per sé a consigliare la lettura di un romanzo che non solo ha il merito di fare luce su una delle tante storie oscure della nostra terra, di cui quasi nessuno ha sentito l’esigenza di occuparsene per quasi cinquant’anni, quasi come se fosse meglio dimenticare. “Blocco 52” è riuscito a restituire uno scorcio di un’ altra Catanzaro, radicalmente diversa dal cumulo di case ed auto guidate da gente perennemente di fretta e con una situazione di ingovernabilita’ tanto sociale quanto politica che ormai appare quasi atavica. E’ proprio da piccole storie come queste che si puo’ combattere per la memoria e per restituire qualche cosa di cui essere fieri ad una città che di questi tempi sembra averne disperatamente bisogno.
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